venerdì 24 luglio 2015

AIDS

Quando arrivai a Chaaria nel 1998, la gente neppure sapeva che esistesse l’AIDS. Molti dubitavano addirittura della sua esistenza.
Vedevo bembini ed adulti estremamente emaciati, con la bocca piena di infezioni micotiche.
Visitavo uomini e donne devastati da diarree irrefrenabili o distrutti dalla tubercolosi. Nella mia testa sapevo che si trattava di infezione da HIV, ma non avevo a disposizione neppure gli esami di laboratorio per fare diagnosi.
Un anno dopo riuscii a procurarmi i primi test HIV e mi resi conto che l’AIDS era una vera epidemia che stava portando via adulti e bambini: vedevo famiglie distrutte e letteralmente cancellate dai villaggi attorno a Chaaria; incontravo bambini rimasti orfani ed abbandonati per la strada, in quanto i loro genitori erano morti.
In me nacque un forte senso di frustrazione: a che scopo fare l’esame diagnostico a persone a cui poi non potevi offrire alcuna possibilità terapeutica? Era come una condanna a morte data mesi prima del decesso! Non era forse meglio neppure saperlo, visto che poi non offrivamo nulla?
Molti mi incoraggiavano a continuare con i test: era importante sapere chi era portatore del virus, allo scopo di prevenirne la diffusione, per insegnare misure preventive e comportamenti adeguati; inoltre, curando le malattie intercorrenti, si poteva comunque allungare di un po’ la sopravvivenza dei pazienti.



Rimaneva comunque il fatto che tutti i nostri pazienti soccombevano alla malattia, e per noi non c’era altro che accettare la sconfitta e vivere la nostra missione come un accompagnamento alla morte, secondo lo stile di Madre Teresa di Calcutta. La trasmissione materno-infantile al parto era altissima e nulla potevamo fare per prevenirla.
I farmaci antiretrovirali arrivarono più tardi, ma i prezzi erano molto costosi: quasi nessuno se li poteva permettere, e ciò aumentava ulteriormente le mie frustrazioni, soprattutto quando pensavo che anni prima all’Amedeo di Savoia di Torino, prescrivevamo i farmaci gratuitamente a tutti i pazienti.
Questa situazione è continuata per molti anni, e migliaia di persone sono state travolte dalla pandemia AIDS, senza avere la possibilità di alcun trattamento: si tratta di un numero incalcolabile di vite umane perse a motivo degli alti prezzi di medicine già presenti sul mercato e gratuite in altre parti del mondo.
Ora la situazione è molto migliorata.
Grazie agli sforzi dell’organizzazione mondiale della sanità (OMS) e di altri grandi organismi internazionali, i test HIV ed i farmaci antiretrovirali sono oggi gratuiti ed il numero di persone che ne possono beneficiare aumenta anche in Kenya anno dopo anno.
L’AIDS, da malattia mortale e senza speranza, si è gradualmente trasformata in una condizione cronica che permette lunghe sopravvivenze, anche se molto rimane ancora da fare, sia nel campo della prevenzione che in quello della terapia.
A Chaaria, grazie alla comunità di Sant’Egidio, oggi riusciamo ad offrire gratuitamente anche le terapie per le malattie opportunistiche ed addirittura il supporto nutrizionale per i malati più defedati... ma non è così ovunque. In tanti posti queste medicine sono ancora a pagamento e costituiscono un peso economico importante per i malati.
E noi siamo in una situazioni privilegiata rispetto a tante altre parti dell’Africa: ci sono Nazioni perennemente dilaniate dalla guerra in cui i soldi vengono spesi per gli eserciti e per gli armamenti, invece di pensare ai bisogni di salute della povera gente.
Penso alla Repubblica Democratica del Congo, al Sud Sudan o alla Somalia, non perchè esse siano gli unici Paesi con problemi in tale settore, ma semplicemente perchè ho amici che vi lavorano e mi dicono che la gente spessissimo non ha ancora accesso ai test HIV, e certamente non può avere i farmaci antiretrovirali.
E’ sempre triste per me pensare che la possibilità o meno di curarsi per l’HIV, così come l’opportunità di sopravvivere e di avere un figlio sano dipendano da dove si nasce e dalle condizioni di povertà delle Nazioni in cui si vive.


Fr Beppe Gaido


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Chaaria è un sogno da realizzare giorno per giorno.

Un luogo in cui vorrei che tutti i poveri e gli ammalati venissero accolti e curati.

Vorrei poter fare di più per questa gente, che non ha nulla e soffre per malattie facilmente curabili, se solo ci fossero i mezzi.

Vorrei smetterla di dire “vai altrove, perché non possiamo curarti”.

Anche perché andare altrove, qui, vuol dire aggiungere altra fatica, altro sudore, altro dolore, per uomini, donne e bambini che hanno già camminato per giorni interi.

E poi, andare dove?

Gli ospedali pubblici hanno poche medicine, quelli privati sono troppo costosi.

Ecco perché penso, ostinatamente, che il nostro ospedale sia un segno di speranza per questa gente. Non ci sarà tutto, ma facciamo il possibile. Anzi, l’impossibile.

Quello che mi muove, che ci muove, è la carità verso l’altro, verso tutti. Nessuno escluso.

Gesù ci ha detto di essere presenti nel più piccolo e nel più diseredato.

Questo è quello che facciamo, ogni giorno.


Fratel Beppe Gaido


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