martedì 12 gennaio 2016

Quelli di Marsabit

Arrivano in ospedale tutti sporchi.
Hanno addosso un tipico odore che è un misto di sudore, sterco di bovino e latte cagliato. Non portano i pantaloni ma una gonna costituita da un panno multicolore avvolto ai fianchi e tenuto in posizione con un cinturone da cui pende l'inseparabile pugnale (strumento essenziale di autodifesa).
A volte indossano una camicia lercia, ma spesso sul tronco portano solamente un grande scialle con cui si imbacuccano. Il volto, per lo più giovane e vigoroso, è sovente ornato da pendagli e collane girocollo. 
Sulla testa hanno l'immancabile berretto di lana che portano sempre...anche quando fuori il caldo è torrido. La mano destra è normalmente occupata dall'immancabile bastone, strumento di lavoro inseparabile dal pastore. Sono alti, magri e ginnici: nel mio immaginario li trovo molto simili ai Somali, anche se da loro differiscono per i tratti somatici più "etiopi".
Non conoscono quasi mai il Kiswahili o l'Inglese, ma solo il dialetto locale della loro terra: per comunicare con loro, sempre ci vuole l'aiuto di un traduttore. Hanno viaggiato tre giorni per raggiungere Chaaria, ma se riescono ad essere visitati dal sottoscritto, sono estremamente felici e pensano che il fatto stesso di aver visto il medico bianco li farà guarire sull'istante.
Sono socievoli e molto affabili.
Gioiscono se li chiamo con il nome di "amico". Si fanno visitare senza remore; amano essere "messi nel computer" (farsi fare l'ecografia)... e poi se ne vanno contenti delle medicine che ho loro prescritto: non si lamentano; non sono complicati; non dicono che quella terapia l'avevano già assunta in passato...sono sicuri che guariranno perchè hanno visto "lo stregone bianco".
Anche oggi ne ho visitati tanti, e questo mi rende felice al pensiero che Chaaria sia conosciuta ed apprezzata così lontano e soprattutto dalla gente semplice e povera.

Fr Beppe Gaido

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Chaaria è un sogno da realizzare giorno per giorno.

Un luogo in cui vorrei che tutti i poveri e gli ammalati venissero accolti e curati.

Vorrei poter fare di più per questa gente, che non ha nulla e soffre per malattie facilmente curabili, se solo ci fossero i mezzi.

Vorrei smetterla di dire “vai altrove, perché non possiamo curarti”.

Anche perché andare altrove, qui, vuol dire aggiungere altra fatica, altro sudore, altro dolore, per uomini, donne e bambini che hanno già camminato per giorni interi.

E poi, andare dove?

Gli ospedali pubblici hanno poche medicine, quelli privati sono troppo costosi.

Ecco perché penso, ostinatamente, che il nostro ospedale sia un segno di speranza per questa gente. Non ci sarà tutto, ma facciamo il possibile. Anzi, l’impossibile.

Quello che mi muove, che ci muove, è la carità verso l’altro, verso tutti. Nessuno escluso.

Gesù ci ha detto di essere presenti nel più piccolo e nel più diseredato.

Questo è quello che facciamo, ogni giorno.


Fratel Beppe Gaido


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