giovedì 18 febbraio 2016

Il quotidiano incontro con la morte

Anche oggi ho perso due bambini, e un terzo forse non riuscirà a superare la notte. Il grande killer è sempre la malaria, di cui quasi nessuno parla ma che uccide più dell’Aids, e spesso ad un'età inferiore. Nell'Africa Sub-Sahariana muore un bambino ogni dieci minuti a causa di questa malattia così antica e così poco combattuta.
I farmaci nuovi sono rarissimi. Ora la nostra speranza è tutta nei confronti di una nuova combinazione farmacologica di origine vegetale scoperta dai cinesi. 
Si tratta di medicine eccellenti perché molto efficaci e prive di effetti collaterali. 
Proprio come il chinino, derivano da un fiore, l'artemisia. Di vaccini invece ancora non se ne parla, anche se l’interesse da parte della comunità internazionale è un po’ aumentato. Almeno ci vengono forniti farmaci e zanzariere gratuitamente.
La reazione delle mamme a queste morti innaturali è umana e prevedibile. Ci sono troppi stereotipi sull’Africa anche rispetto a questo. Si dice che qui la gente ha un rapporto distaccato e fatalistico con la morte perché è un evento naturale che fa parte della vita. Non è per nulla così. Anche a queste latitudini ci sono caratteri diversi e situazioni spiccatamente personali.
Il rapporto che hanno con la salma per esempio cambia. Per un meru il corpo del defunto non ha più alcun valore, perché l’anima ormai se n’è andata. 


Spesso i parenti, incluse le mamme, rifiutano di vedere il morto. Non lo vogliono guardare né toccare. Per un uomo meru toccare un cadavere può causare sterilità. 
Una donna, dopo aver perso un figlio, deve sottostare a riti purificatori che la escluderanno dalla vita del villaggio per almeno tre mesi. 
Questa è la ragione principale per cui molti cadaveri vengono abbandonati nel nostro obitorio, compresi i bambini. 
Per gli adulti è un po' diverso perché queste credenze vengono mitigate dal culto per gli antenati: per la gente è importante avere i propri avi sepolti vicino alla porta di casa, assicura protezione.
Le tribù del nord invece, musulmane e nomadi, non hanno una terra in cui far riposare il cadavere, ma hanno un culto dei morti molto sentito. 
Quando uno di loro muore a Chaaria, ci chiedono di seppellirlo nel nostro cimitero ma non lo abbandonano. Prima della tumulazione vengono in gruppo e praticano abluzioni rituali e preghiere sulla salma, che poi ci viene restituita coperta di oli profumati e orecchini simbolici. 
Normalmente non si fermano con noi per il funerale, che comunque viene celebrato di notte per evitare di generare paure e superstizioni tra i pazienti dell’ospedale.
Se muore da noi un uomo di tribù luo, sappiamo che lo dovremo tenere in obitorio per moltissimi giorni perché, secondo la loro tradizione, la tumulazione è sacra. Anche i poverissimi spenderanno capitali per le esequie, che devono essere sontuose e a cui devono partecipare tutti i membri della famiglia. 
Chi si trovasse all'estero deve necessariamente rientrare per la cerimonia. Il corpo viene trasportato nel Kenya occidentale, terra ancestrale dei luo, a più di mille chilometri da Chaaria. 
Una volta lì, il coniuge dovrà trascorrere la notte accanto al defunto, in segno di addio. Poi prenderanno il via le celebrazioni che per circa una settimana, con banchetti in onore del compianto, prima della definitiva tumulazione.
Ma noi siamo nel Meru, e la maggior parte dei nostri pazienti appartengono all'omonima tribù. 
A Chaaria abbiamo un grosso problema con le sepolture, soprattutto dei piccoli. Stasera ne abbiamo seppelliti dodici, tutti di età inferiore a un anno. Il funerale è iniziato dopo l’ultima preghiera in cappella, verso le nove e mezza.
Siamo scesi nell’obitorio con la macchina e abbiamo caricato i corpicini avvolti semplicemente in stuoie di nylon nero. 
Normalmente li seppelliamo una settimana dopo il decesso, per dare la possibilità alle mamme di andare a casa e dare la notizia, sperando sempre che qualcuno di loro venga portato via per la sepoltura in famiglia.
Ci siamo avviati verso il nostro cimitero, dove abbiamo scavato delle fosse comuni. Purtroppo non riusciamo a offrire una tomba singola a tutti. Abbiamo disposto i corpicini per terra, in fila, aiutati solamente dalla luce delle nostre pile. 
A volte il cielo è ricoperto di stelle e sembra un magnifico arazzo. Stasera era una di quelle volte. Si sentiva il grugnito dei maiali della casa dei nostri vicini, mentre qualche cane abbaiava in lontananza e le scimmie lanciavano le loro grida dalla cima degli alberi. 
Non celebriamo alcun rito particolare, è troppo gravoso per noi organizzare una funzione funebre praticamente quasi tutti i giorni. 
Come sempre abbiamo recitato una breve preghiera e poi, ad una ad una, abbiamo riposto le salme nella fossa e le abbiamo coperte con della terra. Si lavora al buio e in silenzio. Abbiamo chiuso tutto con delle lamiere, fissate con dei pietroni per evitare le incursioni dei cani randagi e delle iene.
La pratica non dura mai più di mezz’ora. A molti amici passati di qui è sembrata disumana, ma onestamente è quanto riusciamo a fare con le nostre forze. Dopo la sepoltura non siamo andati a letto, perché in ospedale ci sono i vivi che ci aspettano, e i loro bisogni sono spesso così gravi e urgenti da non lasciarci molto tempo per piangere i defunti.

Fr Beppe


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Chaaria è un sogno da realizzare giorno per giorno.

Un luogo in cui vorrei che tutti i poveri e gli ammalati venissero accolti e curati.

Vorrei poter fare di più per questa gente, che non ha nulla e soffre per malattie facilmente curabili, se solo ci fossero i mezzi.

Vorrei smetterla di dire “vai altrove, perché non possiamo curarti”.

Anche perché andare altrove, qui, vuol dire aggiungere altra fatica, altro sudore, altro dolore, per uomini, donne e bambini che hanno già camminato per giorni interi.

E poi, andare dove?

Gli ospedali pubblici hanno poche medicine, quelli privati sono troppo costosi.

Ecco perché penso, ostinatamente, che il nostro ospedale sia un segno di speranza per questa gente. Non ci sarà tutto, ma facciamo il possibile. Anzi, l’impossibile.

Quello che mi muove, che ci muove, è la carità verso l’altro, verso tutti. Nessuno escluso.

Gesù ci ha detto di essere presenti nel più piccolo e nel più diseredato.

Questo è quello che facciamo, ogni giorno.


Fratel Beppe Gaido


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