venerdì 23 settembre 2016

Ore di angoscia

Addormentare la paziente è stata una bella impresa.
Da una parte il problema era la comunicazione: ci trovavamo infatti di fronte ad una signora del Nord, incapace di comprendere tutte le lingue a noi note.
Dall’altra poi, il grosso tumore para-tiroideo creava anche una deviazione tale della trachea che l’intubazione era risultata assolutamente difficoltosa.
Durante l’intervento comunque l’anestesia generale non aveva creato alcun problema ed avevamo operato in assoluta sicurezza.
I grattacapi sono iniziate al momento del risveglio. Appena estubata la donna pareva respirare abbastanza bene e sembrava destinata ad una ripresa di coscienza lenta ma senza difficoltà.
Abbiamo quindi deciso che un anestesista seguisse questa paziente in sala risveglio, mentre l’altro ci avrebbe fatto il blocco anestetico per il seguente intervento di frattura inveterata di omero.
Appena iniziata la frattura avverto però grande agitazione in sala risveglio.
La paziente precedente desatura e non riesce a mantenere una respirazione spontanea.
Io ho già esposto l’osso ed ora non mi posso più fermare. 



Cerco di concentrarmi su questo caso complicato di frattura inveterata di omero con chiodo endomidollare rotto, ma la fibrillazione che permea l’atmosfera in cui le ragazze dello staff corrono qua e là, Mbabu dà ordini e richiede farmaci, i volontari italiani si agitano nel dare sostegno a Fulvio, il nuovo anestesista volontario, non mi lascia la mente tranquilla.
Lavoro sul campo operatorio ma la mia testa va spesso nella camera a fianco: di tanto in tanto mi giro e chiedo all’infermiera di sala: “ha ripreso la respirazione spontanea?”
Alla sua risposta: “non ancora, è stata nuovamente intubata e la stanno ventilando, un macigno sempre più pesante mi preme sul cuore. Vorrei andare di là con gli anestesisti, ma so anche che sarei perfettamente inutile: inoltre nessuno potrebbe portare a termine l’intervento della frattura.
Ma è dura lavorare così, anche considerando il fatto che ieri abbiamo finito in sala alle 3 di notte e siamo tutti stanchi ed emotivamente un tantino labili.
Finisco l’intervento ortopedico in tempi abbastanza brevi e mi dirigo immediatamente in sala risveglio, dove purtroppo la donna sveglia ancora non è, anche se ora sembra muoversi un po’.
“Abbiamo fatto antidoti di tutti i farmaci usati. L’anestesia è ormai finita. La donna risponde agli stimoli dolorosi ed il tubo tracheale le dà un fastidio tremendo. 
Quello che non si capisce è perchè non riprenda la respirazione spontanea e desaturi rapidamente non appena smetti la ventilazione con ambu ed ossigeno ad alte dosi” mi dice Mbabu un po’ triste, e poi aggiunge “oggi è davvero una giornata di...difficile!”
Il tempo passa. Si teme il peggio anche se i riflessi pupillari sono buoni e non dovrebbe esserci danno cerebrale.
Ad un certo punto decidiamo di estubare e ci rendiamo conto che attaccato al tubo tracheale c’è un enorme tappo di muco che probabilmente bloccava le vie aeree e causava la grave ipossia. Infatti, rimosso il tappo mucoso, pian piano le condizioni repiratorie sono migliorate e la saturazione è gradualmente risalita a livelli normali.
Fulvio pensa che si sia trattato di una iperattività vagale causata dal nostro smanettare sul nervo stesso mentre toglievamo la cisti del collo: il vago avrebbe causato una super-produzione di muco che probabilmente è stato la causa della grave deficienza respiratoria.
In tutto sono passate quattro ora dal momento in cui abbiamo richiuso la cute a quello in cui finalmente abbiamo riportato in reparto la paziente in condizioni discrete: sono state ore interminabili, di angoscia pura, anche se ora la donna è stabile e sta recuperando bene.


Fr Beppe Gaido


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Chaaria è un sogno da realizzare giorno per giorno.

Un luogo in cui vorrei che tutti i poveri e gli ammalati venissero accolti e curati.

Vorrei poter fare di più per questa gente, che non ha nulla e soffre per malattie facilmente curabili, se solo ci fossero i mezzi.

Vorrei smetterla di dire “vai altrove, perché non possiamo curarti”.

Anche perché andare altrove, qui, vuol dire aggiungere altra fatica, altro sudore, altro dolore, per uomini, donne e bambini che hanno già camminato per giorni interi.

E poi, andare dove?

Gli ospedali pubblici hanno poche medicine, quelli privati sono troppo costosi.

Ecco perché penso, ostinatamente, che il nostro ospedale sia un segno di speranza per questa gente. Non ci sarà tutto, ma facciamo il possibile. Anzi, l’impossibile.

Quello che mi muove, che ci muove, è la carità verso l’altro, verso tutti. Nessuno escluso.

Gesù ci ha detto di essere presenti nel più piccolo e nel più diseredato.

Questo è quello che facciamo, ogni giorno.


Fratel Beppe Gaido


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