giovedì 22 luglio 2010

Non ce l'abbiamo fatta

Charity e’ in room 9, e gia’ gli infermieri si stanno affannando attorno a lei. Sono le 7.30 del mattino e lo staff della notte dovrebbe andare a dormire, ma chi puo’ permettersi di lasciare una paziente in quelle condizioni?
Ha le congiuntive bianche come un lenzuolo; e’ totalmente incosciente, ed il respiro e’ ormai superficiale e periodico. La sua cute poi e’ fredda come il ghiaccio.
Vengo chiamato dalla cappella, subito dopo l’ultimo saluto del sacerdote, mentre ancora si canta l’inno finale... naturalmente mi precipito, perche’ so che solitamente le urgenze sono reali, soprattutto se si permettono di chiamarmi dalla cappella.
Guardo Charity per un attimo: sembra ancora una bambina. Corporatura minuta e viso di una dolcezza sconcertante in un momento cosi’ drammatico per la sua sopravvivenza: pare tranquillamente addormentata.
E’ sporchissima, ed e’ chiaro che vengono da lontanissimo.
“Sono di Kathangacine, in Tharaka ed hanno viaggiato di notte”, mi coferma il timidissimo e giovane marito.
Non voglio neppure immaginare le condizioni di quel trasporto per una paziente in coma! Kathangacine e’ a circa 70 chilometri di strada sterrata.
Ma devo abbandonare subito queste divagazioni, perche’ il monitor ci dice che la frequanza cardiaca della malata e’ di soli 40 battiti al minuto.
Le pratichiamo quindi della adrenalina in vena, che rapidamente velocizza le pulsazioni di quel cuore stremato.
Pressione imprendibile e vasi collassati fanno si’ che reperire un accesso venoso sia un’impresa difficilissima. Le mie ottime infermiere ci riescono comunque in breve tempo, ed ci troviamo quindi a disposizione due cannule per le infusioni.
In una facciamo scorrere delle soluzioni fisiologiche per tentare di riempire un po’ le sue vene ormai quasi vuote. Nell’altra partiamo con il sangue. Per fortuna ne abbiamo in frigo, e non abbiamo problemi con il suo gruppo. Usiamo lo spremisacca per far si’ che il liquido vitale entri piu’ rapidamente nel corpo comatoso di Charity. L’emocromo e’ infatti a livelli paurosi: “Non credevo che una persona potesse essere ancora viva con 2 grammi di emoglobina”.
Porto nell’ambulatorio l’ecografo portatile e rapidamente faccio diagnosi, rendendomi conto chiaramente della causa di un’anemia cosi’ estrema: “La paziente ha una gravidanza tubarica rotta, con enorme versamento ematico in peritoneo”.
Mi rivolgo allora al marito che e’ in piedi in un angolo con aspetto triste e terrorizzato. Anche lui e’ tutto stracciato ed e’ evidentemente poverissimo: “Da quanto tempo tua moglie ha avuto perdite vaginali?”
“Da domenica scorsa”.
“E perche’ non siete venuti prima?”
“Non avevamo soldi... e poi speravo che passasse.”
“Ma non lo sapevi che ogni emorragia in gravidanza e’ sempre molto pericolosa per la donna?”
“Non lo sapevo... ti chiedo scusa, dottore, ma io sono un contadino!”
“Adesso ti chiedo di firmare il consenso informato; ma purtroppo ti devo anche dire che le possibilita’ che tua moglie non sopravviva all’intervento sono estremamente alte, viste le sue condizioni generali”.
L’uomo non batte ciglio di fronte alle mie affermazioni. Chissa’ se mi ha capito!
Semplicemente appone il suo pollice nel posto da me indicato per la sua firma.
Jesse arriva in quel momento ed e’ in agitazione estrema... come e’ d’altra parte il suo solito in frangenti come questo.
Mi dice che bisogna entrare subito in sala senza perdere un minuto.
Charity e’ troppo inbrattata di polvere e sangue, e bisogna almeno lavarla un pochino.
Le passiamo rapidamente delle spugne bagnate sulla sua pelle fredda come quella di un cadavere, dopo averle rimosso i logori abiti tagliandoli con una forbice.
La portiamo in sala di peso, non c’e’ tempo per cercare la barella... d’altra parte pesera’ circa 40 chilogrammi si’ e no.
Ma qui la situazione precipita prima che Jesse inizi a somministrare l’anestesia. Lo sento dare ordini sconclusionati: “Doctor, fai dell’adrenalina in vena...”
Mentre ancora sto aspirando la fiala del farmaco da lui prescritto, mi ‘comanda’ di fare il massaggio cardiaco perche’ Charity e’ in arresto.
Ma mentre il nostro anestesista cerca di insufflare ossigeno nei polmoni in modo ritmico e concordato con le mie pressioni sul torace, la paziente inizia a vomitare abbondantemente del latte cagliato... Forse e’ quello che le avevano fatto bere durante il viaggio con la speranza che le donasse l’energia sufficiente per arrivare a Chaaria.
Jesse aspira le secrezioni dalla bocca e dal neso...e si dispera.
Io guardo il monitor e mi sento sempre piu’ pessimista. I segnali dell’ECG corrispondono esclusivamente ai miei massaggi, ed ora che Jesse sta aspirando, la linea dell’attivita’ respiratoria e’ piatta.
Il monitor continua a ‘urlare’ con allarmi di vario tipo e con luci che lampeggiano in modo tetro.
Dico a Kanyua di osservare le pupille della paziente, mentre ancora continuo il mio lavoro sul cuore.
“Dilatate e fisse; non rispondono alla luce”.
Guardo l’anestesista che e’ ancora agitato ed intento ad armeggiare ora l’aspiratore, ora l’ambu: “Jesse, e’ morta... dobbiamo smettere”.
Come sempre, lui non risponde. Da’ uno sguardo agli allarmi impazziti della macchina, e finalmente si arrende. Si gira verso il muro e, a testa bassa, inizia a pulire i suoi strumenti.
So che normalmente reagisce cosi’. Tocchera’ a me parlare al marito; ne sono sicuro. Mi immagino che piangera’ tantissimo: l’ho visto cosi’ spaesato e confuso!
Charity e’ morta nei suoi vent’anni. Lascia uno sposo affranto con due figli sulle spalle. E’ andata in Paradiso mentre era al secondo mese di una gravidanza che non potra’ mai arrivare a termine.
La sua vita e’ stata stroncata soprattutto dall’ignoranza: se fossero andati a scuola, avrebbero certo compreso che non si sta a casa aspettando che una emorragia gestazionale si fermi da sola. Sarebbero corsi dal medico alla prima goccia di sangue.
E’ stata uccisa anche dalla poverta’. Kathangacine e’ lontanissimo da Chaaria... tra noi e loro non ci sono altri ospedali in grado di compiere interventi chirurgici; la strada e’ pessima, e di notte non ci sono neppure mezzi pubblici.
Pagare una cifra esorbitante per affittare un’auto e’ stato impossibile per questo povero marito, ora vedovo. Tutto questo ha certamente contribuito all’esodo infausto. Chissa’ se l’avremmo potuta salvare, magari anche solo otto ore prima?
Anche Charity e’ una drammatica testimonianza del fatto che il diritto universale alla salute e’ ancora un sogno per gran parte dell’umanita’. Certo, noi siamo qui in Africa proprio per lavorare a tale ideale... ma quello che facciamo e’ sempre sproporzionatamente inadeguato ai bisogni... e la morte per noi e’ sempre una sconfitta penosa e sconcertante.

Fr Beppe Gaido


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Chaaria è un sogno da realizzare giorno per giorno.

Un luogo in cui vorrei che tutti i poveri e gli ammalati venissero accolti e curati.

Vorrei poter fare di più per questa gente, che non ha nulla e soffre per malattie facilmente curabili, se solo ci fossero i mezzi.

Vorrei smetterla di dire “vai altrove, perché non possiamo curarti”.

Anche perché andare altrove, qui, vuol dire aggiungere altra fatica, altro sudore, altro dolore, per uomini, donne e bambini che hanno già camminato per giorni interi.

E poi, andare dove?

Gli ospedali pubblici hanno poche medicine, quelli privati sono troppo costosi.

Ecco perché penso, ostinatamente, che il nostro ospedale sia un segno di speranza per questa gente. Non ci sarà tutto, ma facciamo il possibile. Anzi, l’impossibile.

Quello che mi muove, che ci muove, è la carità verso l’altro, verso tutti. Nessuno escluso.

Gesù ci ha detto di essere presenti nel più piccolo e nel più diseredato.

Questo è quello che facciamo, ogni giorno.


Fratel Beppe Gaido


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