sabato 31 luglio 2010

Quel che possiamo o non possiamo fare

Amos ha 7 anni ed e’ cosi’ piccolo da dimostrarne 5.
E’ impolverato e sporco, cosi’ come la mamma che non ha un solo dente sano.
Sono arrivati alle 8 di sera e mi han trovato ancora alle prese con l’ambulatorio.
Vengono dal Tharaka, e sono poveri... ragione fondamentale per una immediata intesa psicologica non verbale tra di noi.
Chiedo alla madre di dove sono, e mi dicono che provengono da Kathangacine. Gia’ la parola suscita in me un rispetto incommensurabile: 80 chilometri di sterrato che la donna si e’ fatta spendendo un sacco di soldi per essere trasportata fin qui a cavallo di una motocicletta cinese.
Ha viaggiato con Amos legato alla schiena in un pareo.
“Ad ogni asperita’ del terreno si metteva a strillare di dolore!”, mi ha confidato con le lacrime agli occhi.
Visito rapidamente il piccolo, e non mi ci vuole molta scienza per comprendere che il femore sinistro e’ spezzato in due. La madre insiste che si tratta invece del ginocchio, e non della coscia.
Continuiamo a dissentire per un po’, ed alla fine devo ricorrere ad un metodo un po’ rude per convincerla: le metto una mano su quello che io penso sia il focolaio di frattura; poi premo la sua mano con la destra, mentre la mia sinistra solleva lentamente il piedino di Amos, che strilla in un attimo di dolore intensissimo. La donna ritrae l’arto con una smorfia di orrore; ha avvertito lo scroscio dei monconi ossei che andavano in collisione.
La situazione che si viene a creare e’ per me molto deprimente. Vorrei aiutare questa madre che ha fatto il viaggio della speranza verso Chaaria, ma non abbiamo ne’ gli strumenti, ne’ la conoscenza tecnica per una fissazione interna di frattura.
Le parlo francamente... ho superato da anni il timore di affermare che non sono capace di fare una certa cosa!
Le propongo un ‘pronto soccorso’ con una doccia gessata che riduca il dolore ed impedisca una dislocazione dei frammenti ossei; le offro di dormire nel reparto pediatrico anche senza pagare per il ricovero; e quindi le assicuro il trasporto fino ad un altro ospedale dove la tecnica chirurgica in questione viene eseguita.
Mentre appongo il gesso mi chiedo se poi questa signora cosi’ povera potra’ pagare l’intervento... ma non voglio andare troppo oltre con tali considerazioni.
Ci sono cose che possiamo fare ed altre che sono al di fuori della nostra portata... e pagare il ricovero in altri ospedali per coloro che non possono permetterselo e’ solo un sogno irrealizzabile, visto che gia’ siamo praticamente in bancarotta per gli stipendi e le medicine che ci occorrono per Chaaria.
Stamane l’accompagno all’ambulanza. Lei e’ molto contenta perche’ Amos ha dormito bene, senza dolore.
Mentre la sistemo sulla barella del veicolo mi chiedo se questo bimbo verra’ alla fine operato, o se le faranno problemi per il pagamento.
Questo dubbio mi riempie di tristezza, un tristezza che quasi fa scomparire l’umana soddisfazione provata pochi minuti prima, quando ho concluso con successo l’operazione di ernia inguinale congenita in un bimbo di appena 2 anni. La chirurgia pediatrica era fuori della nostra portata fino a poco tempo fa. Non avevo la piu’ pallida idea su come aggredire un’ ernia in paziente pediatrico. Tutti i chirurghi italiani mi ripetevano che un bambino non e’ un piccolo adulto, e che le tecniche sono molte diverse, complesse e con necessita’ di microstrumenti che per lo piu’ non possediamo.
Ora pero’ ne facciamo almeno due alla settimana.
Dovrei essere contento pensando a quante famiglie non hanno dovuto affrontare situazioni finanziarie come quella che si porra’ alla mamma di Amos tra poche ore.
Ma e’ strano come il nostro cervello si focalizzi di piu’ sui fallimenti che sui successi. Sono amareggiato, e l’incapacita’ di aiutare Amos ricopre di un manto deprimente anche il successo ottenuto con l’altro bimbo.

Fr Beppe Gaido

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Chaaria è un sogno da realizzare giorno per giorno.

Un luogo in cui vorrei che tutti i poveri e gli ammalati venissero accolti e curati.

Vorrei poter fare di più per questa gente, che non ha nulla e soffre per malattie facilmente curabili, se solo ci fossero i mezzi.

Vorrei smetterla di dire “vai altrove, perché non possiamo curarti”.

Anche perché andare altrove, qui, vuol dire aggiungere altra fatica, altro sudore, altro dolore, per uomini, donne e bambini che hanno già camminato per giorni interi.

E poi, andare dove?

Gli ospedali pubblici hanno poche medicine, quelli privati sono troppo costosi.

Ecco perché penso, ostinatamente, che il nostro ospedale sia un segno di speranza per questa gente. Non ci sarà tutto, ma facciamo il possibile. Anzi, l’impossibile.

Quello che mi muove, che ci muove, è la carità verso l’altro, verso tutti. Nessuno escluso.

Gesù ci ha detto di essere presenti nel più piccolo e nel più diseredato.

Questo è quello che facciamo, ogni giorno.


Fratel Beppe Gaido


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