giovedì 19 agosto 2010

L'Africa risolve i nostri problemi personali?

Stephen (nome fittizio per la privacy) e’ canadese ed e’ in Africa da vari mesi.
Lavora in un ospedale non molto lontano da noi.
Oggi e’ qui a Chaaria perche’ sta accompagnando una donna da cesarizzare.
Mi pare molto nervoso, e lo vedo lanciare improperi contro le infermiere che con lui hanno viaggiato sull’ambulanza.
Mi sembra che Stephen sia molto teso, ed anche assai stanco.
Lo sento prendersela per un sacco di cose apparentemente inutili o del tutto secondarie. Vuole la cartella clinica subito... molto prima che gliela chieda io, e si innervosisce perche’ l’infermiera tarda qualche secondo, essendo impegnata a scaricare la donna dal veicolo insieme al nostro watchman.
Poi se la prende anche con l’autista che apparentemente ha dimenticato a casa qualcosa che avrebbero dovuto consegnare in qualche ufficio a Meru durante il tragitto di ritorno.
Io assisto alla scena impotente e confuso. Mi limito a guardare le espressioni imbarazzate sui volti di quei poveri malcapitati. Eseguono i lavori meccanicamente, sempre guardando a terra con occhio spento. Continuano ad essere rimproverati a lungo mentre la ‘cesarizzanda’ viene consegnata al nostro staff e preparata per l’intervento.
La cosa piu’ brutta e’ che Stephen non si rende neppure conto che sta facendo le sue scenate di fronte ad un sacco di altra gente, essendo la nostra sala d’aspetto completamente gremita a quell’ora.
I suoi collaboratori sono curvi e camminano silenziosi. Forse hanno capito da tempo che e’ inutile o addirittura controproducente rispondere, se l’interlocutore non e’ in pace con la sua mente. Ne verrebbe fuori un alterco peggiore.
Mi dispiace molto di vedere Stephen cosi’ irascibile... ed in qualche modo repellente.
Naturalmente non gli dico nulla e agisco con naturalezza, come se non fosse successo niente. Gli prometto un sms dopo l’operazione, per dirgli che il cesareo e’ andato per il meglio.
Lui e quelli del suo ospedale se ne vanno in pochi minuti, dopo le formalita’ di ricovero in maternita’. Quando risalgono in macchina continuo ad udire il suo tono di voce di qualche decibel piu’ acuto della norma e sempre striato da indisponenti vene polemiche. Non seguo cosa dice. D’altra parte sono dinamiche loro, ed in questo momento ringrazio il cielo che Stephen non lavora a Chaaria.
Lo conosco da mesi, ed ho sempre visto in lui una persona assolutamente disponibile ed un lavoratore ‘incallito’.
Non e’ cattolico, ma la sua fede e’ di gran lunga superiore alla mia.
Prega e legge la Bibbia tutti i giorni. Mi cita libri di mistici precedenti alla Riforma, di cui io neppure sospetto l’esistenza... lasciamo stare poi averli letti!
Era sempre umile e calmo. Mi dava l’impressione di una persona estremamente equilibrata.
Chissa’ perche’ ora e’ cosi’!
So poco della sua storia, anche se qualcosa mi ha confidato: pur non avendo ancora 40 anni, gia’ e’ un tradito nell’affetto. Sposato e divorziato, ha dei figli piccoli che pero’ sono stati affidati alla moglie.
“Sono venuto in Africa per ritrovare me stesso e per risolvere una situazione di estremo dolore interiore”, mi aveva confidato un giorno durante una bella chiacchierata davanti ad una bottiglia di birra a Meru dopo la conferenza per gli ECM.
Ora, vedendolo cosi’ irritabile e profondamente in crisi, mi tornano alla mente delle domande che mi ero fatto da subito:
“se per Africa intendiamo situazioni estreme, chiuse e stressanti come quelle di Chaaria (e dove si trova Stephen non e’ da meglio sicuramente!), siamo sicuri che stare in questo continente povero aiuti a ritrovare se stessi?
Tutte le missioni, cattoliche, protestanti o laiche, lavorano in genere con alti livelli di stress legati ad un rapporto assolutamente sproporzionato tra la magnitudine dei bisogni e le forze in campo per affrontarli; un individuo con una situazione emotiva labile, puo’ trovare sollievo in ambienti come i nostri, o potrebbe magari destabilizzarsi, soffrire di piu’ lui stesso ed anche far soffrire inutilmente gli altri che magari nulla sanno delle pene interiori della persona in questione?
Inoltre il vivere insieme in una vita comunitaria stretta, sempre a contatto gomito a gomito con altri volontari e con personale stabile di diverse etnie e nazionalita’, puo’ davvero aiutare nella ricerca di senso, o puo’ diventare un grilletto per nuove turbolenze in un cuore gia’ di per se’ in guazzabuglio?
Certamente il contatto con la poverta’ e con la sofferenza innocente sono una impagabile scuola di vita: chi puo’ negarlo! E forse Stephen e’ solo stanco, ma ha ragione... probabilmente i nostri ammalati sono realmente dei maestri di vita che ci insegnano le vere priorita’ nelle nostre scale di valori. Puo’ darsi che effettivamente i poveracci che curiamo nei nostri ospedali rurali ci aiutino a trovare noi stessi”.
Non ho risposte a tali quesiti che rimangono sospesi nella mia mente, attendendo una risposta che si ostina a non venire dopo anni di ricerca in tal senso.
Forse e’ meglio non pensarci e fare quel cesareo.

Fr Beppe Gaido 

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Chaaria è un sogno da realizzare giorno per giorno.

Un luogo in cui vorrei che tutti i poveri e gli ammalati venissero accolti e curati.

Vorrei poter fare di più per questa gente, che non ha nulla e soffre per malattie facilmente curabili, se solo ci fossero i mezzi.

Vorrei smetterla di dire “vai altrove, perché non possiamo curarti”.

Anche perché andare altrove, qui, vuol dire aggiungere altra fatica, altro sudore, altro dolore, per uomini, donne e bambini che hanno già camminato per giorni interi.

E poi, andare dove?

Gli ospedali pubblici hanno poche medicine, quelli privati sono troppo costosi.

Ecco perché penso, ostinatamente, che il nostro ospedale sia un segno di speranza per questa gente. Non ci sarà tutto, ma facciamo il possibile. Anzi, l’impossibile.

Quello che mi muove, che ci muove, è la carità verso l’altro, verso tutti. Nessuno escluso.

Gesù ci ha detto di essere presenti nel più piccolo e nel più diseredato.

Questo è quello che facciamo, ogni giorno.


Fratel Beppe Gaido


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