martedì 2 novembre 2010

Lettera dal Dott. Vincenzo Scala...da Chaaria

Strano giorno per assistere nel morire un bambino di  otto anni affetto da malaria cerebrale e nefrite. La giovane madre è rimasta a piangere e ad invocare Gesù per più di due ore a terra  con intorno le altre madri e noi “ bianchi “ impotenti e impietriti, che nulla potevamo per lenire la sua lacerante ferita.
Dopo un attimo la routine ricomincia con la normale attività operatoria e ambulatoriale.
Quando il sole splende come oggi, favorisce l'arrivo numeroso di pazienti con le più varie patologie.
I reparti sono pieni all'inverosimile ed  è encomiabile come il team di Fr. Beppe riesca a districarsi tra i letti e tra le continue, ma silenziose, richieste di aiuto.
Pazienti operati che non possiedono una elevata soglia del dolore, diremmo noi  "alieni europei”, ma in verità essi  avvertono il dolore con la nostra medesima intensità, ma la vita li ha formati a ritenere dentro con dignità il grido.  Anche  i bimbi della pediatria sono silenziosi, non giocano, non gridano, non si lamentano e restano sempre vicini alle mamme.
I “buoni figli”, chi a piedi chi sulla sedia a rotelle, circolano felici tra noi, a volte si siedono con noi a parlare e a bere o ci richiedono una carezza, ma mai che disturbino più di tanto. Sono felici nella loro ingenua semplicità forse neanche si rendono conto dei loro handicap.
Oggi per la prima volta nella mia vita, scusate  il ricordo personale, non sono andato a far visita a miei cari defunti  ed ho col cuore e con la mente viaggiato lì fino al cimitero di Pachino dove riposano da generazioni i miei avi. E di questo all'inizio ero dispiaciuto ma dopo ho ritenuto che essi da lassù sono contenti per come sto impiegando la mia giornata e mi assistono in questa opera.

Dott. Vincenzo Scala


 

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Chaaria è un sogno da realizzare giorno per giorno.

Un luogo in cui vorrei che tutti i poveri e gli ammalati venissero accolti e curati.

Vorrei poter fare di più per questa gente, che non ha nulla e soffre per malattie facilmente curabili, se solo ci fossero i mezzi.

Vorrei smetterla di dire “vai altrove, perché non possiamo curarti”.

Anche perché andare altrove, qui, vuol dire aggiungere altra fatica, altro sudore, altro dolore, per uomini, donne e bambini che hanno già camminato per giorni interi.

E poi, andare dove?

Gli ospedali pubblici hanno poche medicine, quelli privati sono troppo costosi.

Ecco perché penso, ostinatamente, che il nostro ospedale sia un segno di speranza per questa gente. Non ci sarà tutto, ma facciamo il possibile. Anzi, l’impossibile.

Quello che mi muove, che ci muove, è la carità verso l’altro, verso tutti. Nessuno escluso.

Gesù ci ha detto di essere presenti nel più piccolo e nel più diseredato.

Questo è quello che facciamo, ogni giorno.


Fratel Beppe Gaido


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