mercoledì 1 dicembre 2010

Lettera della volontaria Giuseppina Pistorio

Sono tornata da qualche giorno da Chaaria e sebbene abbia ripreso subito a lavorare non riesco a distogliere il pensiero in quel di Chaaria. Ho conosciuto la sofferenza così da vicino da starne male. L'anno scorso sono stata coinvolta a partecipare ad una spedizione in Madagascar, mi era sembrato di aver visto abbastanza, ma i colori della natura incontaminata, i tramonti sul mare, la luna così luminosa e la bassa marea che ci permettevano di arrivare al villaggio vicino a piedi, lenivano in un certo qualmodo le sofferenze a cui assistevamo. A Chaaria il numero dei pazienti, la cornice in cui tutto si svolge mi ha costretta a cercare nel mio più profondo la forza per poter trovare un senso a quanto si è fatto. Unica forza da cui si poteva attingere era Dio a Lui la mia preghiera per poter essere strumento nelle Sue mani. E non c'è stato giorno in cui afffidandomi a Lui ne sono uscita delusa. La giornata  per quanto a volte  sembrasse carica di difficoltà di ogni natura (le peggiori quelle volute dagli uomini  che cercano in ogni modo di minare il lavoro di chi in modo diligente , amorevole,disiteressato,di chi crede, offre quotidianamente il proprio operato) come per magia si scioglieva ogni nodo tessuto con malizia. La sofferenza, che tanto spaventa,mi ha toccata così intimamente da riuscire ad amarla; l'ho amata nei volti delle persone che l'hanno subita, nelle madri che hanno perso il loro bene più caro: i figli,e in tutti quelli che  prodigandosi per gli altri non possono non esserne toccati. 
Un infinito Grazie va a fr. Beppe, che come un motore, alimentato da qualcosa di più grande di noi, conduce un lavoro senza sosta, interminabile. 

Giuseppina Pistorio       

      

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Chaaria è un sogno da realizzare giorno per giorno.

Un luogo in cui vorrei che tutti i poveri e gli ammalati venissero accolti e curati.

Vorrei poter fare di più per questa gente, che non ha nulla e soffre per malattie facilmente curabili, se solo ci fossero i mezzi.

Vorrei smetterla di dire “vai altrove, perché non possiamo curarti”.

Anche perché andare altrove, qui, vuol dire aggiungere altra fatica, altro sudore, altro dolore, per uomini, donne e bambini che hanno già camminato per giorni interi.

E poi, andare dove?

Gli ospedali pubblici hanno poche medicine, quelli privati sono troppo costosi.

Ecco perché penso, ostinatamente, che il nostro ospedale sia un segno di speranza per questa gente. Non ci sarà tutto, ma facciamo il possibile. Anzi, l’impossibile.

Quello che mi muove, che ci muove, è la carità verso l’altro, verso tutti. Nessuno escluso.

Gesù ci ha detto di essere presenti nel più piccolo e nel più diseredato.

Questo è quello che facciamo, ogni giorno.


Fratel Beppe Gaido


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