In Africa è importante mangiare abbondantemente, quindi a Chaaria le colazioni sono all’inglese, i pranzi all’italiana, le cene all’americana e a metà del mattino e del pomeriggio ci sono le pause kenyane per il tchai (il the). Per i volontari non è facile abituarsi ai ritmi dell’equatore.
La colazione è il momento più critico della giornata. Molti volontari si presentano con gli occhi gonfi e l’andatura affaticata, a piedi striscianti. In quelle condizioni si limitano a sorseggiare the o caffè, lamentandosi per i terribili effetti collaterali del Lariam. E’ lui il responsabile di quel disastro mattutino, non importa aver fatto le ore piccole sul terrazzino, o aver sorseggiato vodka, la colpa è sempre e solo del Lariam. Se la ditta produttrice avesse sperimentato il farmaco a Chaaria non avrebbe di certo ottenuto il permesso per la commercializzazione.
Le cose migliorano con la pausa di metà mattina, quando gli effetti collaterali sono svaniti e i volontari iniziano a dare il meglio di sé, introducendo delle innovazioni. Ad esempio, invece di asciugare le stoviglie e riporle nella credenza, le lasciano bagnate e gocciolanti sul lavandino, così le amebe possono farsi una nuotatina in attesa di entrare in qualche apparato digerente.
Al pranzo la fantasia è maggiore: con la scusa che si mangia ad orari diversi, in funzione delle necessità di servizio, ognuno ripone le cose nella credenza con l’ordine che più gli aggrada, così chi desidera lo stuzzicadenti deve fare una caccia al tesoro.
Al pomeriggio se ci sono torte o mandási (le frittelle), tutto bene. Ma se ci sono le patate dolci, quasi nessuno le mangia. Eppure sono buonissime, sia quelle bianche, sia le gialle o le viola (ma questo colore non piace proprio).
La cena è alle 19.45 in punto, ma a quell’ora si presentano in pochi perchè la puntualità non è più di moda. Nemmeno quando si è invitati a condividere la cena con i Fratelli viene rispettato l’orario. Mangiando con i Fratelli è usanza che il Superiore concluda la breve orazione iniziale augurando il “buon appetito”, cui si può rispondere, eventualmente, “grazie, altrettanto”. Ebbene, fra i pochi volontari presenti nessuno risponde in quel momento, essi si siedono e solo dopo essersi accomodati cominciano a loro volta ad augurare “buon appetito” a destra e a manca. L’operazione richiede diversi minuti perchè ogni volta che entra un volontario ritardatario questi si sente in dovere di dire “buon appetito” a tutti, uno per uno, e se stai masticando il boccone lui aspetta che lo mandi giù e che gli rispondi.
Dal punto di vista delle abitudini alimentari, si osserva un costante aumento dei volontari vegetariani. Essi sottopongono le portate ad un accurato esame bromatologico per scoprire se ci sono tracce delle temute proteine muscolari. Inoltre si informano se durante la peparazione e la cottura dei cibi vi siano stati dei contatti o degli sfioramenti tra i vegetali e le carni. Bisogna prepararsi al peggio: prima o poi arriveranno i primi volontari “vegans”, quindi i “crudisti”.
Come volontario di lungo corso ho avuto l’opportunità di partecipare a quasi tutte le azioni descritte (quasi tutte, perchè non prendo il Lariam e sono onnivoro). Ma ce n’è una da cui non riesco ad allontanarmi, forse perchè è l’azione che meglio rispecchia lo spirito di sacrificio dei volontari. Quando nasce un desiderio alimentare particolare si trova sempre un volontario che si offre di andare in cucina per preprare un piatto di sua conoscenza, con ottimi risultati. Allego come esempio la foto di una scorpacciata di bomboloni, perfetti, preparati da Dolores che ne ha fritti tanti da riempire sei vassoi. L’immagine documenta con quale contrizione e pentimento vengono presentati gli ultimi dolcetti avanzati. I tempi sono proprio cambiati: Dante metteva i golosi nel terzo girone, ora li mettono sul blog.
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