giovedì 10 novembre 2011

Il diritto alla salute


Bisogna affermare che la sanità in Kenya è a pagamento per la maggioranza della popolazione, in quanto il sistema sanitario nazionale copre parte delle spese ospedaliere solo per coloro che hanno un lavoro regolare. Questo crea delle situazioni paradossali in cui la maggior parte della popolazione non ha la possibilità di ricevere le cure necessarie alla soluzione dei propri problemi di salute.
E’ una cosa spiacevole, che spesso fa problema ai volontari che ci accostano, ma noi dobbiamo sempre chiedere ai nostri pazienti di pagare il conto dell’ospedale: cerchiamo di tenere i prezzi bassi, ma non possiamo offrire prestazioni gratuite.
Pur essendo la struttura sanitaria con i prezzi più bassi in tutto il Meru, spesso i pazienti non possono pagare il conto del ricovero: questo crea a noi problemi enormi, con ammanco di capitali che si accumula di mese in mese, e che spesso ci rende problematico anche il pagamento delle medicine, del cibo, della corrente elettrica o degli stipendi.
Naturalmente questo non significa che a Chaaria si rifiutino terapie essenziali a pazienti che sono a rischio per la loro vita.
Però è pur vero che dobbiamo far pressione su di loro al fine di ottenere almeno qualcosa, se non proprio tutto l’ammontare del debito.
Ciò che tende a scompensare l’andamento economico del nostro ospedale e lo rende deficitario è senza dubbio l’alto numero di pazienti cronici o terminali che spesso vengono abbandonati in ospedale per mesi e magari devono anche essere sepolti qui perché nessuno viene più a vederli.
Questi pazienti terminali o comunque non autosufficienti sono per lo più casi di AIDS in stadio finale, neoplasie all’ultimo stadio, o esiti di ictus con paraplegia o emiplegia. Qui il problema psicologico per noi è enorme: non possiamo dimetterli perché sono veramente molto malati, e non riusciamo a far pressioni per alcun pagamento perché i parenti si danno alla macchia.
Indubbiamente il problema è aggravato dalla tendenza diffusa a non dire la verità, per cui spesso non si ha l’impressione di aiutare i più poveri, ma piuttosto i più scaltri che sanno mentire meglio. Quante volte capita che qualcuno viene dimesso senza pagare uno scellino e poi si viene a sapere più tardi che ha una casa in muratura e magari una mandria di mucche.
Però non abbiamo il personale sufficiente per verificare queste cose, per cui preferiamo abbondare e lasciare che qualcuno ci freghi piuttosto che rischiare di mandare via qualcuno che era veramente bisognoso.
Ripeto ancora che a Chaaria non mandiamo via nessuno veramente bisognoso, per motivi economici.
Il problema diventa ancora più grave quando si tratta di terapie più impegnative che necessitano il trasferimento a Nairobi: il caso più emblematico è quello dei tumori maligni che richiedono interventi complessi, chemioterapia o radioterapia. Altre situazioni più o meno insolubili sono quelle dei malati con insufficieza renale che richiedono la dialisi.
All’inizio io cercavo di convincere i familiari ad andare a Nairobi e a tentare il viaggio della speranza, ma ora spesso taccio e non dico più nulla: infatti si creavano spesso situazioni surreali, in cui io spiegavo con dovizia di particolari la sierietà della condiziione e la necessità di una terapia complessa al Kenyatta Hospital. Poi veniva il momento critico, quando loro mi dicevano: “Non abbiamo soldi… Per favore aiutaci e poi ti restituiamo tutto poco per volta”.
L’abbiamo fatto una volta per un bimbo affetto da linfoma di Burkitt: abbiamo speso per lui una cifra che ci sarebbe bastata per curare almeno 1000 pazienti con malaria complicata. Il bambino ora sta bene, anche se purtroppo è diventato un ladruncolo che non va a scuola a causa della cattiva situazione familiare. In realtà però non ci è stata restituita alcuna somma di denaro e noi ci siamo trovati nella necessità di dire di no a tantissime altre richieste, perché non avevamo più fondi. Quell’unico bimbo è guarito, e questo è sicuramente una cosa buona davanti a Dio; penso spesso alla poesia della “Stella marina” che il bimbo getta in mare dopo averla trovata sulla spiaggia… Però quanti altri sono morti senza che noi potessimo far nulla!
E’ triste ma si tratta di considerare quanto è grande la torta che possiamo offrire ai nostri pazienti e poi decidere quanto grande deve essere la fetta che possiamo dare ad ognuno. Può sembrare cinico ed anche sbagliato, ma la decisione che ho preso e di stabilire un limite, un tetto massimo alle prestazioni che possiamo offrire (un tetto che comunque continua a salire visto la crescente complessita’ dei servizi da noi offerti): tutto ciò che eccede il tetto massimo, non lo nomino neanche al paziente.
Per esempio non dico ad un paziente con insufficienza renale che c’è la dialisi a Nairobi, perché so che lui non se la potrà permettere; io poi so di non farcela a sponsorizzarlo, per cui preferisco evitare di creare in lui false speranze, e faccio le terapie che la nostra struttura può offrire o al massimo gli dico di provare a rivolgersi ad un altro medico per vedere se per caso a lui vengono altre idee.
Dire al paziente che la cura ci sarebbe e poi non dargli i soldi per la medesima, normalmente porta a situazioni di grave tensione interiore: personalmente ci si sente dei vermi, ed in più si viene a volte coperti di insulti dai congiunti che non comprendono i nostri problemi economici e pensano che un “MUZUNGU” abbia soldi all’infinito.
Queste considerazioni portano alla logica conseguenza che alcuni strumenti diagnostici sono a volte quasi un’arma a doppio taglio: pensate alle biopsie. Si fanno con la speranza che l’esito sia negativo, o che si tratti magari di una forma infettiva di cui si conosce la terapia (per esempio TBC dei linfonodi)… ma se poi la biopsia diventa positiva per tumore maligno, il problema economico con tutti i suoi risvolti psicologici, riappare immediatamente.
Non so se ho in qualche modo espresso il nostro dramma quotidiano: è una situazione che per un Italiano ha dell’assurdo, perché da noi gli ospedali pubblici sono totalmente gratuiti, o comunque c’è un rimborso quasi totale delle spese anticipate dal paziente.
Qui è diverso. La dichiarazione delle Nazioni Unite sul diritto universale alla salute non trova attuazione pratica, e purtroppo lo spartiacque tra chi può essere curato e chi no, è sempre dettato dal denaro.

Fr Beppe

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Chaaria è un sogno da realizzare giorno per giorno.

Un luogo in cui vorrei che tutti i poveri e gli ammalati venissero accolti e curati.

Vorrei poter fare di più per questa gente, che non ha nulla e soffre per malattie facilmente curabili, se solo ci fossero i mezzi.

Vorrei smetterla di dire “vai altrove, perché non possiamo curarti”.

Anche perché andare altrove, qui, vuol dire aggiungere altra fatica, altro sudore, altro dolore, per uomini, donne e bambini che hanno già camminato per giorni interi.

E poi, andare dove?

Gli ospedali pubblici hanno poche medicine, quelli privati sono troppo costosi.

Ecco perché penso, ostinatamente, che il nostro ospedale sia un segno di speranza per questa gente. Non ci sarà tutto, ma facciamo il possibile. Anzi, l’impossibile.

Quello che mi muove, che ci muove, è la carità verso l’altro, verso tutti. Nessuno escluso.

Gesù ci ha detto di essere presenti nel più piccolo e nel più diseredato.

Questo è quello che facciamo, ogni giorno.


Fratel Beppe Gaido


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