lunedì 26 dicembre 2011

Una morte in sala

Sono le 23.30 del giorno di Natale ed il cicalino suona:
“C’e’ una emergenza! E’ un trasferimento dal Tharaka!”.
E’ difficile coordinare le idee quando si viene svegliati nella prima mezz’ora di sonno, ma mi precipito in ospedale.
Si tratta di una giovane donna, che appare molto anemica ed ormai in condizioni generali direi terminali.
Metto insieme le idee e decido prima di tutto di eseguire un’ecografia d’urgenza: l’eco conferma il mio sospetto diagnostico: si tratta di una gravidanza extrauterina, ormai rotta, e con enorme emorragia interna.
Non avendo laboratoristi reperibili, sono io a testare velocemente l’emoglobina (che risulta di 2 g/dl) ed il gruppo sanguigno, che e’ O positivo. Mando il guardiano a svegliare Jesse, in quanto non posso certo tentare di entrare in sala senza l’anestesista, date le condizioni critiche della paziente... ed intanto faccio le prove crociate su sangue che temporaneamente sottraggo ad un’altra ricoverata.
Prepariamo l’operanda per la sala: toglierle i vestiti impolverati, lavarla, farle la tricotomia, inserire il catetere ed allestire i set chirurgici non ci richiede piu’ di 15 minuti.
La mamma pero’ continua a peggiorare ed il suo respiro e’ “gasping” anche prima di incidere la cute. Il monitor ci rivela complessi cardiaci premortali.
Io non vorrei agire, ma Jesse e l’infermiera mi spingono a farlo, dicendomi che la speranza e’ l’ultima a morire: la paziente non respira, ma siccome c’e’ attivita’ cardiaca, Jesse la intuba, la ventila e le pratica adrenalina.
Velocemente iniziamo l’intervento; in un batter d’occhio siamo nella cavita’ peritoneale da cui aspiriamo almeno quattro litri di sangue, mentre una sacca di emazie entra nelle vene della donna al massimo della celerita’ consentita dallo spremisacca regalatomi dagli amici delle Molinette.
Troviamo immediatamente la sede dell’ectopica: clampiamo e suturiamo, arrestando l’emorragia in pochi minuti.
Dal punto di vista operatorio non ci sono grossi problemi: aspiriamo il sangue dall’addome; laviamo il peritoneo con fisiologica tiepida, e chiudiamo.
Ma la paziente non riprende una respirazione spontanea e pian piano anche la traccia del monitor si trasforma dapprima in fibrillazione ventricolare seguita poi da asistolia. Appena do l’ultimo punto sulla cute, l’ECG si fa costantemente piatto.
Abbiamo perso la malata in sala.
Siamo tutti imbrattati di sangue che si e’ sparso abbondantemente anche sul pavimento, e siamo molto depressi.
Ora dobbiamo parlare con il marito e gli altri parenti che sono fuori in corridoio.
E’ molto dura!
E’ sempre difficile dire ad uno sposo che la giovane consorte non c’e’ piu’!
Ma lui e gli altri congiunti non sono stati affatto rudi con noi.
Erano invece molto arrabbiati con la struttura rurale che aveva accolto la donna due giorni prima: in quel centro di salute avevano fatto una diagnosi di malaria, senza neppure un esame microscopico della goccia spessa; avevano scritto in cartella che la paziente era anemica, senza pero’ testare una emoglobina.
Ma la cosa che li rendeva tristi ed aggressivi era il fatto che la donna aveva perso coscienza alle 5 del pomeriggio, e lo staff di quella struttura aveva perso ore preziose, praticando inutili infusioni di soluzione salina, senza pensare ad un trasferimento urgente. La decisione di portare la malata a Chaaria e’ in effetti avvenuta piu’ di cinque ore dopo la perdita di coscienza!
“Se ci avessero detto che avevano problemi con l’auto, saremmo venuti a Chaaria con il matatu!”
Io non so cosa dire.
Non voglio aumentare la tensione che c’e’ nell’aria, e sprattutto non intendo incitare animosita’ verso lo staff dell’altra struttura.
Cerco di calmare i parenti affranti, e poi in privato provo a spiegare gli errori compiuti ad una delle infermiere che aveva accompagnato la malata: c’e’ sicuramente stata una catena di errori che si sono sommati dando origine ad un circolo vizioso che ha portato all’esito fatale.
Prima di tutto ho consigliato di non ricoverare malati gravi in strutture dove non c’e un medico o dove le possibilita’ diagnostiche sono scarse: in caso di dubbio e’ meglio riferire immediatamente ad una unita’ di livello superiore.
Poi ho caldamente suggerito di non considerare automaticamente come malaria cerebrale una perdita di coscienza inspiegata, soprattutto in una donna giovane: ho ripetuto il mio assioma secondo cui tutte le donne nel nostro contesto sono gravide fino a prova contraria, e che una lipotimia e’ un segno importante di sospetto per una ectopica.
Ho anche consigliato di rimanere molto aperti nelle ipotesi diagnostiche: la mia impressione e’ che il fatto di pensare inizialmente alla malaria, ha poi portato ad una interpretazione di tutti i sintomi alla luce di quell’ipotesi, senza la necessaria coscienza critica che avrebbe potuto portare a considerare altre cause. E’ come se, il primo giorno, quelle infermiere si fossero messe degli occhiali, attraverso cui hanno poi distorto il fluire dei sintomi alla luce dell’interpretazione originaria.
E da ultimo ho ricordato che ogni ritardo nel trasferimento puo’ essere rapidamente letale per i nostri malati, soprattutto quando si viene da lontano e la strada e’ accidentata... per cui e’ meglio trasferire con eccessivo anticipo che tardare!
Credo che queste infermiere, visibilmente afflitte e turbate, abbiano compreso, e che non ripeteranno certo un tale errore.
Ora devo cercare di rimpiazzare il sangue che ho “preso in prestito dall’altra paziente” di Chaaria.
Mentre trasportiamo la giovane donna al mortuario, non posso fare a meno di pensare a quel marito diventato vedovo il giorno di Nalate ed ai suoi bambini che non rivedranno piu’ la loro mamma. Mi torna in mente il cactus che c’e’ davanti alla cappella della clausura di Tuuru, e mi perdo un attimo a fantasticare trasognato: per molti la vita e’ proprio come questa pianta grassa; le spine ci sono sempre e sono molto lunghe, ma i fiori si vedono davvero raramente.

Fr Beppe Gaido  


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Chaaria è un sogno da realizzare giorno per giorno.

Un luogo in cui vorrei che tutti i poveri e gli ammalati venissero accolti e curati.

Vorrei poter fare di più per questa gente, che non ha nulla e soffre per malattie facilmente curabili, se solo ci fossero i mezzi.

Vorrei smetterla di dire “vai altrove, perché non possiamo curarti”.

Anche perché andare altrove, qui, vuol dire aggiungere altra fatica, altro sudore, altro dolore, per uomini, donne e bambini che hanno già camminato per giorni interi.

E poi, andare dove?

Gli ospedali pubblici hanno poche medicine, quelli privati sono troppo costosi.

Ecco perché penso, ostinatamente, che il nostro ospedale sia un segno di speranza per questa gente. Non ci sarà tutto, ma facciamo il possibile. Anzi, l’impossibile.

Quello che mi muove, che ci muove, è la carità verso l’altro, verso tutti. Nessuno escluso.

Gesù ci ha detto di essere presenti nel più piccolo e nel più diseredato.

Questo è quello che facciamo, ogni giorno.


Fratel Beppe Gaido


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