giovedì 30 maggio 2013

Life in western Equatoria - South Sudan/part one

Premessa

Federica Dassoni è una dermatologa milanese che ho conosciuto in Etiopia a Mekele, dove per tre anni ha lavorato come volontaria.
Da allora siamo diventati amici e per tre volte è venuta a fare del volontariato a Chaaria, in un progetto di collaborazione tra noi e l'Associazione che gestiva il dipartimento di dermatologia di Mekele.
Federica è stata volontaria e docente di dermatologia per me e per tutto il personale di Chaaria.
Ora ha coraggiosamente iniziato una difficile esperienza di frontiera in Sud Sudan, e noi le siamo vicini con l'affetto e con l'amicizia, oltre che prometterle tutte le consulenze in medicina tropicale di cui dovesse aver bisogno. Qui di seguito il testo della prima lettera che
mi ha mandato dal Sud Sudan.

Fr Beppe


Lettera di Federica

Dopo 2 giorni in capitale incontrando in modo fugace cooperanti italiani in riva al Nilo, dopo il caos dell’aeroporto di Juba, eccoci finalmente sull’aereo WFP (US aid) alla volta di Yambio. 
Dall’aereo il Sud Sudan è fatto di distese di alberi verdi, che si susseguono in modo assolutamente monotono per tutto il viaggio.
Eccoci infine sulla pista in terra battuta, in mezzo ad un campo.
Tutti i passeggeri, cooperanti di varie ONG, scendono nel campo, un furgoncino raccoglie i bagagli.
La strada verso Nzara è sterrata, tratti di fango e grosse buche si fanno sentire in macchina, ma è bellissima; si inoltra nell’ombra in mezzo a una specie di bosco con alberi di vario tipo, compresi manghi e palme. I manghi qui sono buonissimi, purtroppo la stagione è ormai alla fine… il nostro autista si chiama Dario, ma il nome inganna: è un simpatico sudsudanese.





Nzara è un grosso villaggio, fatto di case in mattoni di argilla e paglia, del colore della terra, sparse tra gli alberi. Qualche cumulo di pietre qua e là lascia intuire le tombe scavate in giardino.
All’ospedale si va a piedi. La strada che da casa porta all’ospedale si inoltra in mezzo alle capanne, alla gente, ai bambini, ai panni stesi tra una capanna e l’altra. Le palme fanno pensare ad un luogo di villeggiatura.
L’ospedale è un grosso capannone con il tetto in lamiera, ha diversi padiglioni ed un grande cortile. I pazienti che possono, ed i parenti, stanno fuori dalle stanze torride. I parenti cucinano in cortile e stendono i panni sull’erba.
I pazienti? in pediatric ward: gran malaria. Ma c'è anche tanto HIV e tubercolosi. E poi il programma per la lebbra. 
Non si possono fare radiografie, nè ecografie, nè elettrocardiogramma...per cui non è facile a volte fare una diagnosi. Funzionalità renale ed epatica? utopia. Bene...hmmm...
Primo giorno. Caldo soffocante. In bagno (ma si può chiamare bagno? non so...) e in camera non si è soli… ok si sapeva, tuttavia non sospettavo le lucciole e i pipistrelli che camminano rumorosamente nel controsoffitto… i coinquilini del piano di sopra.

Federica Dassoni




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Chaaria è un sogno da realizzare giorno per giorno.

Un luogo in cui vorrei che tutti i poveri e gli ammalati venissero accolti e curati.

Vorrei poter fare di più per questa gente, che non ha nulla e soffre per malattie facilmente curabili, se solo ci fossero i mezzi.

Vorrei smetterla di dire “vai altrove, perché non possiamo curarti”.

Anche perché andare altrove, qui, vuol dire aggiungere altra fatica, altro sudore, altro dolore, per uomini, donne e bambini che hanno già camminato per giorni interi.

E poi, andare dove?

Gli ospedali pubblici hanno poche medicine, quelli privati sono troppo costosi.

Ecco perché penso, ostinatamente, che il nostro ospedale sia un segno di speranza per questa gente. Non ci sarà tutto, ma facciamo il possibile. Anzi, l’impossibile.

Quello che mi muove, che ci muove, è la carità verso l’altro, verso tutti. Nessuno escluso.

Gesù ci ha detto di essere presenti nel più piccolo e nel più diseredato.

Questo è quello che facciamo, ogni giorno.


Fratel Beppe Gaido


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