mercoledì 9 maggio 2018

I miei scheletri nell'armadio

Da un po’ di tempo sono tormentato da alcune mie sconfitte e da certi errori fatti nella mia pratica clinica.
Sono certo di non essere l’unico medico che e’ perseguitato dai suoi sensi di colpa, dai suoi rimpianti per cio’ che avrebbe dovuto fare diversamente quando qualcosa non e’ andato bene, per cio’ che avrebbe dovuto fare meglio e per le volte in cui astenersi sarebbe stata la
scelta migliore.
E’ molto raro per me provare disagio per qualcosa che avrei dovuto fare ed invece non ho fatto, perche’ in genere mi butto a capofitto e provo sempre a fare del mio meglio.
Certo, questa certezza della mia retta intenzione mi lascia tranquillo davanti a Dio: davvero ce la metto tutta e davvero cerco sempre il bene del paziente.
La maggior parte delle volte va tutto bene, e dei successi ce ne dimentichiamo molto in fretta.
Alle volte invece le cose non vanno per il verso giusto, e questi insuccessi non riesci a dimenticarli; ti rincorrono per mesi ed anni, disturbano le tue notti con incubi o con l’insonnia, rischiano anche di bloccarti e di farti cadere nella tentazione del “non fare pur di non sbagliare”.


Da un po’ di tempo ho questi scheletri nell’armadio chef anno capolino e mi fanno star male. E’ vero che piu’ si fa e piu’ ci sono complicazioni. E’ vero il proverbio che dice che solo chi mangia pane, poi fa le briciole.
Devo accettare la sconfitta ed anche il fatto di non essere perfetto: tutti sbagliano e nessuno se ne puo’ ritenere immune.
Cerco di convivere con sbagli, sconfitte e sensi di colpa e di non farmi scoraggiare nel mio cammino di dedizione agli altri.

Fr Beppe


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Chaaria è un sogno da realizzare giorno per giorno.

Un luogo in cui vorrei che tutti i poveri e gli ammalati venissero accolti e curati.

Vorrei poter fare di più per questa gente, che non ha nulla e soffre per malattie facilmente curabili, se solo ci fossero i mezzi.

Vorrei smetterla di dire “vai altrove, perché non possiamo curarti”.

Anche perché andare altrove, qui, vuol dire aggiungere altra fatica, altro sudore, altro dolore, per uomini, donne e bambini che hanno già camminato per giorni interi.

E poi, andare dove?

Gli ospedali pubblici hanno poche medicine, quelli privati sono troppo costosi.

Ecco perché penso, ostinatamente, che il nostro ospedale sia un segno di speranza per questa gente. Non ci sarà tutto, ma facciamo il possibile. Anzi, l’impossibile.

Quello che mi muove, che ci muove, è la carità verso l’altro, verso tutti. Nessuno escluso.

Gesù ci ha detto di essere presenti nel più piccolo e nel più diseredato.

Questo è quello che facciamo, ogni giorno.


Fratel Beppe Gaido


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