Abbiamo appena finito
l’intervento. E’ notte fonda e siamo a pezzi, anche perche’ stamattina le
emergenze erano iniziate alle 3.
In tutti noi permane un
senso di grande mestizia e depressione, e ci chiediamo come mai debbano ancora succedere
cose del genere al giorno d’oggi.
Era iniziato tutto verso
le ore 20, quando Miriam e’ entrata nel mio studio durante la mia ultima
ecografia: “Mi dispiace, ma non posso lasciarti andare a riposare dopo questo
malato. E’ infatti arrivato un prolasso del cordone ombelicale”.
“Oh Santo Cielo, ma il cordone
pulsa?”, le chiedo concitato.
“Veramente non ne sono
sicura... e’ meglio che vieni a controllare!”
Non mi arrabbio con
Miriam, che e’ appena uscita dalla scuola infermieri, perche’ e’ piu’ che normale
non abbia tutta quell’esperienza che ti aspetteresti per la gestione di una
sala parto oberata come la nostra.
Seguo la mia infermiera e
mi trovo davanti una donna molto povera, a giudicare dalle condizioni degli
abiti. E’ sporca ed impolverata. La sua statura non supera il metro e trenta, e
noto sul suo addome una cicatrice da pregresso cesareo.
Non sento alcuna
pulsazione quando afferro il cordone tra pollice ed indice, e decido per una
ecografia d’urgenza in sala parto con lo strumento portatile.
La donna suda profusamente,
ed e’ in preda a dolori addominali molto sospetti... sono infatti troppo violenti
e troppo continui per essere imputabili semplicemente a contrazioni.
L’eco parla chiaro come
sempre: il feto e’ morto, ma l’utero e’ rotto. Bisogna quindi aprirla comunque,
sperando poi di salvarle l’organo.
Seguono momenti convulsi,
in cui io mi dedico alla misurazione dell’emoglobina ed alla determinazione del
gruppo e delle prove crociate. Ann invece corre a chiamare Monica e Wilson. Il
watchmen fa una scappata fino alla casa di Jesse, e Fr Giancarlo parte “a tutta
birra” con l’ambulanza alla volta del domicilio di Kanyua.
Riusciamo ad iniziare
molto rapidamente, in quanto tutti erano reperibili al momento della chiamata.
Aprendo l’addome, immediatamente ci troviamo immersi un una specie di deja’
vue, molto simile a quanto gia’ successo pochi giorni fa.
Nuovamente ci ritroviamo imbrattati
di sangue e coaguli, subito dopo l’apertura del peritoneo... almeno stavolta
sappiamo che la donna e’ sieronegativa!
Lavoriamo in una specia
di pozzanghera, ed il sangue che si rapprende sulle nostre gambe, ci da’ una
spiacevole sensazione di freddo.
Estraiamo il feto
morto... ma qui la situazione si fa angosciante.
Ci sono tantissime
aderenze che bloccano l’utero al fondo della pelvi... in quella pancia c’e’
sangue dovunque, e non riusciamo a capire da dove provenga; pare un idrante, e
per un po’ non possiamo fare altro che aspirare, mentre la nostra ansia
continua a salire.
Finalmente riusciamo ad
intravvedere qualcosa: la breccia sull’utero e’ enorme, ed ha squarciato
l’organo in due.
Prima di comprendere se
si puo’ tentare una riparazione o meno, bisogna comunque esporre il campo
operatorio. Tagliamo quindi le aderenze e leghiamo le nuove fonti di emorragia.
Le condizioni della
paziente rimangono instabili e ci troviamo nella necessita’ di una trasfusione
veloce durante l’intervento.
Quando finalmente
riusciamo e liberare l’utero, ci rendiamo conto che e’ stato ridotto ad una
massa carnosa informe. Ogni volte che ci infiliamo l’ago per una sutura,
creiamo una lacerazione peggiore ed un nuovo zampillo emorragico.
“Devo decidere subito.
Non c’e’ tempo di tergiversare. Jesse, quanti figlia ha la paziente?”, quasi
urlo nella mia angoscia.
“Ne ha uno solo!”
Penso tra me che il
figlio unico e’ un dramma in questa cultura, ma non ho alternative. Anche un
ovaio e’ praticamente esploso al momento della rottura uterina:
“Cambiamo il piano
operatorio. Dobbiamo fare l’isterectomia, se vogliamo tentare di salvarle
almeno la vita”.
L’operazione continua per
altre due ore piene di tensione e di imprevisti; ma alla fine la donna e’
sveglia e stabile dal punto di vista emodinamico.
Sicuramente e’ viva, e
questo e’ gia’ un grande risultato... ma che razza di esistenza avra’ davanti a
se’, ora che e’ diventata chirurgicamente sterile?
Uscendo dal reparto
operatorio mi trovo davanti l’anziana madre dell’operata, e, quasi senza
rendermene conto, scarico su di lei un po’ della tensione accumulata durante
l’operazione: “ma non ve lo aveva detto nessuno, dopo il primo cesareo, che la
sua costituzione ossea non avrebbe consentito un parto naturale? Perche’ ha
provato a partorire a casa?”
La vecchia signora e’
timidissima, come tutti coloro che si rivolgono ad un medico bianco. Il loro
senso di timore e riverenza e’ tale, che neppure ti guardano negli occhi: “non
lo sapevamo, dottore... o magari non avevamo capito!”
“Ma perche’ lasciarla
travagliare per piu’ di venti ore a domicilio! Non vi rendevate conto che le
cose andavano male?”
“Si’, dottore, lo
vedevamo che qualcosa era storto, ma lei non riusciva a camminare... e noi non
avevamo i soldi per pagare un mezzo pubblico!”
“Ma come e’ possibile? La
gravidanza dura nove mesi, in cui uno puo’ mettere da parte qualcosa...”.
Ma non riesco a finire la
frase... le mie parole mi rimbombano nel cervello immediatamente, e mi paiono
inopportune e giudicanti.
Ho pensato subito con
vergogna: ‘io non posso sapere quanto sia difficile la vita di qualcuno dei
miei pazienti’.
Ho abbassato lo sguardo,
che era stato puntato su di lei; mi sono sentito stupido, e le ho semplicemente
sussurrato:
“Ti chiedo scusa per
quanto ho detto... lo so che non posso capire”.
In quel momento mi si
avvicina Miriam, la quale ha sentito tutto, e, senza essere interrogata, mi da’
la sua versione delle cose: “Molti non si rendono conto del pericolo, e
vogliono comunque partorire a casa, per risparmiare quattro soldi”.
Io la fisso sconsolato, e
faccio un segno di assenso con il capo.
Vorrei dire qualcosa, ma
preferisco tenermelo dentro: ‘avra’ pur risparmiato qualche scellino, ma se
fosse venuta anche solo ieri, oggi avrebbe ancora l’utero ed un figlio da
coccolare. Il calcolo fatto per un ipotetico risparmio, si e’ trasformato in
una profondissima perdita che la segnera’ per sempre... quante volte nella vita
si fanno errori da cui non e’ poi piu’ possibile recuperare’.
Fr Beppe Gaido
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