Jane e’ arrivata alle 10 di mattina con
importanti contrazioni a termine di gravidanza. Alla visita ostetrica in sala
parto, le nostre infermiere hanno documentato una dilatazione cervicale di due
centimetri con assenza di battito cardiaco fetale.
Hanno quindi inviato la paziente al
sottoscritto per una ecografia: sfortunatamente ho confermato una morte
intrauterina a termine, ma non ho notato altri problemi. Non c’era placenta
previa e non si osservavano segni di distacco o di ematoma retroplacentale.
Ho quindi deciso di informare la mamma della
perdita del feto per motivi al momento sconosciuti (la pressione arteriosa era
infatti nella norma; non c’erano edemi o proteinuria, e la malaria era
negativa).
Siccome normalmente le linee guida del
Ministero per la Salute del Kenya ci spingono a non fare cesarei su feto morto,
abbiamo deciso di lasciarla contrarre fino al parto naturale.
C’era qualcosa che mi turbava nella
paziente, ma onestamente in quel momento non ci ho dato molta importanza: la
donna infatti contraeva moltissimo, con contrazioni pressoche’ continue, pur
avendo solo due centimetri di dilatazione.
Travolto dal superlavoro di Chaaria non ho
piu’ chiesto nulla della cliente in questione, pensando che avrebbe partorito.
Sono pero’ stato chiamato all’una di notte
perche’ Jane aveva una emorragia antepartum.
Vincendo la stanchezza ed il sonno, ho
valutato la quantita’ di perdita vaginale che mi e’ sembrata modesta; ho fatto
un controllo urgente dell’emoglobina ed ho trovato un valore di 11 g/dl; ho rifatto una visita
ginecologica ed ho trovato una dilatazione di tre centimetri. Ho nuovamente
notato le contrazioni uterine praticamente continue e la mamma in preda ad un
dolore estremo.
La quantita’ minima di emorragia esterna e
l’emoglobina apparentemente stabile mi hanno tratto in inganno, ed ho
perseverato nel piano di farla partorire naturalmente, per evitarle una
cicatrice da pregresso cesareo senza un figlio vivo.
Ma alle sei di mattina sono stato chiamato
nuovamente perche’ Jane era in stato di shock; le contrazioni uterine erano
continue ed inefficaci, mentre l’emoglobina era scesa a 4 grammi.
Abbiamo quindi dovuto procedure ad una
veloce stabilizzazione delle condizioni generali, alle prove crociate urgenti ed
al taglio cesareo d’emergenza.
Aprendo quella pancia abbiamo trovato un
utero “a macchia di leopardo” a causa di moltissime aree di imbibizione
emorragica (quella che in inglese chiamamo extravasation). Dopo l’incisione
dell’organo e la rimozione del feto morto, abbiamo trovato un enorme ematoma retroplacentare: la
paziente aveva quindi avuto una abruptio placentae (distacco intempestivo di
placenta) che probabilmente era minimo al ricovero, ma e’ continuato poi
rapidamente causandole sia l’enorme ematoma e l’emorragia interna, che il rischio di apoplessia
uterina da imbibizione ematica attorno ai miociti.
Abbiamo giudicato che quell’utero avrebbe
potuto riprendersi, e percio’ non abbiamo fatto l’isterectomia.
Con una serie di trasfusioni siamo poi
riusciti a stabilizzare l’operata, che ora e’ gia’ stata dimessa.
Quali sono le lezioni che ho imparato da
questo caso clinico?
1) Prima di tutto, contrazioni uterine eccessive e continue
all’inizio del travaglio non sono normali neppure in caso di morte endouterina,
e sono sempre un indice di pericolo perche’ possono portare a rottura d’utero,
o ad apoplessia uterina.
2) Una abruption iniziale puo’
essere molto difficile da documentare all’ecografia.
3) Le perdite vaginali non sono
una indicazione affidabile della quantita’ di sangue effettivamente perso, in
quanto nell’abrutio placentae la maggior parte dell’emorragia e’ interna.
4) Piu’ che dell’emocromo ci si
deve affidare alle condizioni generali della paziente (ipotensione, polso
piccolo, shock), perche’ l’emorragia acuta causa prima di tutto
emoconcentrazione e l’emoglobina puo’ mantenersi elevata per molte ore,
portando ad un ritardo diagnostico-terapeutico.
PS: ringraziamo i volontari che
generosamente donano il loro sangue.
Fr Beppe Gaido
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