Gli street boys in Kenya
sono quasi una città a parte. Ragazzi di strada che vivono di espedienti,
rubando, spacciando, chiedendo l'elemosina. Hanno tra i 6 e i 16 anni, sono
soprattutto orfani o rifiutati dalle famiglie. Non hanno un posto dove dormire,
né da mangiare. Sbadigliano mezzi addormentati ai bordi delle strade, sniffando
colla per non sentire i crampi della fame e lanciandosi contro ogni auto che
passa per chiedere qualche spicciolo o un po’ di cibo. Più diventano grandi più
si trasformano in veri delinquenti. Ti assalgono armati di una manciata di
feci. Si sente sovente parlare di automobilisti a cui hanno riempito la
macchina di escrementi perché si erano rifiutati di dargli qualcosa, o di
persone infettate con una siringa o addirittura uccise a bastonate.
L’Aids ancora una volta ha delle
responsabilità enormi: falcidia la popolazione adulta, creando un numero sempre
più elevato di orfani a cui nessuno pensa. Questi crescono in strada, in
condizioni igieniche pietose e di squallida promiscuità. In questo modo loro
stessi fanno aumentare il rischio di diffusione del virus.
La novità di questi ultimi mesi è
che gli street boys non sono più solo ragazzi. Tra di loro si vedono
sempre più spesso anche bambine e ragazze. Questo sta portando ad un aumento di
stupri, gravidanze non volute, aborti illegali, con un incremento della
mortalità materna e del numero di neonati abbandonati appena partoriti.
I centri che si occupano del
recupero e della promozione umana di questi giovani sono pochissimi, se non
inesistenti. La diocesi di Meru ha una casa di accoglienza, che però è lontana
da Chaaria e assolutamente insufficiente a fronteggiare il fenomeno.
Questa è la storia di Martin. La
storia di una notte come tante per uno street boy. Me l’ha raccontata un
giorno in cui pioveva a dirotto, riparati soltanto da qualche lamiera
accartocciata. Mi si è avvicinato per strada minacciandomi, e non so come sono
riuscito a parlargli, a farmi dire come si chiamava, perché lo stava facendo,
perché viveva così. E presto ci siamo ritrovati vicino alla sua baracca, con lui
che non voleva più smettere di raccontare... Dovrebbe avere più o meno 14 anni,
non ne è sicuro, ma questo ragazzo ha già vissuto una vita intera.
“Mi sono girato e rigirato nel
letto. Avevo freddo e continuavo a sognare che stavo chiedendo alla mamma di
darmi un’altra coperta perché non riuscivo a scaldarmi. Poi un calcio nei
fianchi mi ha riportato alla realtà. Mi sono guardato intorno e ho visto almeno
altri dieci ragazzi di strada come me. Dormiamo ammassati uno sopra l’altro per
non morire di freddo. Mi sono sentito perso. Ho cominciato a frugare nelle
tasche cercando la colla, ma il barattolo era vuoto. La colla è il mio antidoto
contro tutti i mali. Avevo bisogno di farmi. Se non l’avessi fatto, tutti gli
incubi del passato mi avrebbero assalito. E poi ancora.
Gli altri stavano tutti dormendo,
ne ho approfittato. Ho allungato la mano e l’ho infilata nella tasca di
Kithinji, che dormiva di fianco a me. Sapevo che lui di Vinavil ne aveva.
Improvvisamente però mi ha preso per un braccio e mi ha urlato: “Sporco
ladro!”. Nessuno degli street boys dorme davvero di notte, abbiamo tutti
troppa paura. Paura di essere fregati, picchiati, derubati, paura anche solo di
chiudere gli occhi e fermarsi a pensare. Kithinji ha iniziato a prendermi a
calci, mi sono difeso come ho potuto finché non è arrivato il guardiano del
garage in cui ci eravamo nascosti. Teneva ben stretto in mano il suo
manganello, pronto per farci male. Molto male. Sono scappato via e mi sono
messo a correre così forte che mi mancava il fiato. Mi sono infilato dentro a
una cabina del telefono e ho aspettato. Crampi alla pancia, fame, caldo. Mi
sentivo svenire. Niente colla da sniffare, niente fumo, niente. Io, solo con
qualche ricordo che tengo stretto.
Mi è venuto in mente quando ero
piccolo e passavo il tempo con i miei fratelli minori. La mamma era la regina
della casa: si prendeva cura di noi tre, ci raccontava tante belle storie, ci
portava a scuola al mattino. Noi la aiutavamo quando c’era troppo lavoro nei
campi. Mio padre lavorava lontano, in una serra dove si coltivavano fiori che
poi venivano portati in Europa. Lo vedevamo poco e con noi non aveva un buon
rapporto. Era sempre molto duro, a volte anche violento. La mamma ci diceva che
era il suo modo per educarci, per farci crescere forti.
Ricordo quando andavamo con lei a
togliere le erbacce cresciute tra le nuove piantine di granoturco. Ogni tanto,
sotto un sole che faceva toccare i 45 gradi, si alzava di colpo in piedi e
cominciava con le sue raccomandazioni per il futuro, tipo “studiate, fate i
bravi, cercate di crearvi una vita più dignitosa della nostra”. Abitavamo in
una casa piccola e modesta, costruita con assi di legno e un tetto in lamiera
ondulata, ormai arrugginita. Il pavimento non era di cemento, ma quando puliva,
la mamma lisciava così tanto la terra battuta che sembrava ci fosse la cera.
A un certo punto il papà ha
cominciato a venire a casa sempre meno, ogni due o tre mesi, ed era sempre più
nervoso e arrabbiato. Appena sentivamo la sua voce in cortile, noi bambini ci
nascondevamo perché sapevamo che sarebbe iniziata l’ennesima litigata. Non
posso dimenticare quella sera in cui, appena entrato in casa, si è messo a
sbraitare: “Donna, dov’è il mio piatto di grano e fagioli?”. La mamma ha
risposto che non aveva preparato niente perché non sapeva sarebbe tornato quel
giorno, ma gliel’avrebbe fatto subito. Papà ci è passato vicino con una faccia
scura e si è rivolto a me: “Cosa c’è da guardare? Non hai mai visto un uomo che
torna a casa e vuole essere servito dalla moglie?”. Io non ho risposto, i miei
fratelli neppure. Uno strano odore dolciastro mi ha invaso le narici, ho
provato disgusto. Avevo solo 11 anni ma ho capito tutto: mio padre era un
alcolizzato. Persino le scarpe puzzavano di vino. La mamma gli ha messo in
tavola da mangiare. Dopo il primo cucchiaio si è alzato in piedi gridando che
il cibo era freddo. Ha cominciato ad avvicinarsi alla mamma barcollando, lei
era impaurita, sudava. Ha cercato di colpirla con un pugno, ma per fortuna è
stramazzato a terra prima. L'abbiamo tirato su e portato a letto. La mattina
dopo, non c’era più. La mamma come sempre l'ha difeso. Ci ha detto che era
tornato a lavorare, per darci da mangiare.
La nostra vita è continuata così
ancora per un anno. Il papà veniva a casa sempre più raramente, era sempre più
ubriaco e violento. La mamma, sempre meno sorridente, sempre più magra e
debole. Un giorno, qualche anno dopo, sono tornato da scuola e ho visto la casa
piena di gente. Ho capito subito. La mamma era sdraiata a terra, su una stuoia.
Il suo viso era affilato come uno scheletro e lei non rispondeva. L’ho scossa,
l’ho chiamata a lungo, finché una zia mi ha trascinato via e mi ha detto: “La
mamma è morta. Sii forte. Il papà sta tornando dal lavoro”.
Mi sono sentito perso. Cosa
faccio adesso senza la mamma? Dopo il funerale il papà mi ha detto di
dimenticarmi la scuola. Lui sarebbe tornato nei campi, io avrei dovuto
occuparmi della casa, del campo e degli animali. E avrei badato ai miei
fratelli, che invece avrebbero potuto continuare le elementari. A scuola avevo
imparato che l’Aids è una malattia che non perdona, e che può entrare nelle
case solo se uno dei genitori è cattivo. Sembrava proprio che la mamma fosse
morta di quella malattia. E siccome lei era buona, era stato sicuramente il
papà a portare la maledizione nella nostra famiglia”.
Fr Beppe
Nessun commento:
Posta un commento