sabato 4 agosto 2012

Gli street boys - La storia di Martin


Gli street boys in Kenya sono quasi una città a parte. Ragazzi di strada che vivono di espedienti, rubando, spacciando, chiedendo l'elemosina. Hanno tra i 6 e i 16 anni, sono soprattutto orfani o rifiutati dalle famiglie. Non hanno un posto dove dormire, né da mangiare. Sbadigliano mezzi addormentati ai bordi delle strade, sniffando colla per non sentire i crampi della fame e lanciandosi contro ogni auto che passa per chiedere qualche spicciolo o un po’ di cibo. Più diventano grandi più si trasformano in veri delinquenti. Ti assalgono armati di una manciata di feci. Si sente sovente parlare di automobilisti a cui hanno riempito la macchina di escrementi perché si erano rifiutati di dargli qualcosa, o di persone infettate con una siringa o addirittura uccise a bastonate.
L’Aids ancora una volta ha delle responsabilità enormi: falcidia la popolazione adulta, creando un numero sempre più elevato di orfani a cui nessuno pensa. Questi crescono in strada, in condizioni igieniche pietose e di squallida promiscuità. In questo modo loro stessi fanno aumentare il rischio di diffusione del virus.
La novità di questi ultimi mesi è che gli street boys non sono più solo ragazzi. Tra di loro si vedono sempre più spesso anche bambine e ragazze. Questo sta portando ad un aumento di stupri, gravidanze non volute, aborti illegali, con un incremento della mortalità materna e del numero di neonati abbandonati appena partoriti.
I centri che si occupano del recupero e della promozione umana di questi giovani sono pochissimi, se non inesistenti. La diocesi di Meru ha una casa di accoglienza, che però è lontana da Chaaria e assolutamente insufficiente a fronteggiare il fenomeno.

Questa è la storia di Martin. La storia di una notte come tante per uno street boy. Me l’ha raccontata un giorno in cui pioveva a dirotto, riparati soltanto da qualche lamiera accartocciata. Mi si è avvicinato per strada minacciandomi, e non so come sono riuscito a parlargli, a farmi dire come si chiamava, perché lo stava facendo, perché viveva così. E presto ci siamo ritrovati vicino alla sua baracca, con lui che non voleva più smettere di raccontare... Dovrebbe avere più o meno 14 anni, non ne è sicuro, ma questo ragazzo ha già vissuto una vita intera.
“Mi sono girato e rigirato nel letto. Avevo freddo e continuavo a sognare che stavo chiedendo alla mamma di darmi un’altra coperta perché non riuscivo a scaldarmi. Poi un calcio nei fianchi mi ha riportato alla realtà. Mi sono guardato intorno e ho visto almeno altri dieci ragazzi di strada come me. Dormiamo ammassati uno sopra l’altro per non morire di freddo. Mi sono sentito perso. Ho cominciato a frugare nelle tasche cercando la colla, ma il barattolo era vuoto. La colla è il mio antidoto contro tutti i mali. Avevo bisogno di farmi. Se non l’avessi fatto, tutti gli incubi del passato mi avrebbero assalito. E poi ancora.
Gli altri stavano tutti dormendo, ne ho approfittato. Ho allungato la mano e l’ho infilata nella tasca di Kithinji, che dormiva di fianco a me. Sapevo che lui di Vinavil ne aveva. Improvvisamente però mi ha preso per un braccio e mi ha urlato: “Sporco ladro!”. Nessuno degli street boys dorme davvero di notte, abbiamo tutti troppa paura. Paura di essere fregati, picchiati, derubati, paura anche solo di chiudere gli occhi e fermarsi a pensare. Kithinji ha iniziato a prendermi a calci, mi sono difeso come ho potuto finché non è arrivato il guardiano del garage in cui ci eravamo nascosti. Teneva ben stretto in mano il suo manganello, pronto per farci male. Molto male. Sono scappato via e mi sono messo a correre così forte che mi mancava il fiato. Mi sono infilato dentro a una cabina del telefono e ho aspettato. Crampi alla pancia, fame, caldo. Mi sentivo svenire. Niente colla da sniffare, niente fumo, niente. Io, solo con qualche ricordo che tengo stretto.
Mi è venuto in mente quando ero piccolo e passavo il tempo con i miei fratelli minori. La mamma era la regina della casa: si prendeva cura di noi tre, ci raccontava tante belle storie, ci portava a scuola al mattino. Noi la aiutavamo quando c’era troppo lavoro nei campi. Mio padre lavorava lontano, in una serra dove si coltivavano fiori che poi venivano portati in Europa. Lo vedevamo poco e con noi non aveva un buon rapporto. Era sempre molto duro, a volte anche violento. La mamma ci diceva che era il suo modo per educarci, per farci crescere forti.
Ricordo quando andavamo con lei a togliere le erbacce cresciute tra le nuove piantine di granoturco. Ogni tanto, sotto un sole che faceva toccare i 45 gradi, si alzava di colpo in piedi e cominciava con le sue raccomandazioni per il futuro, tipo “studiate, fate i bravi, cercate di crearvi una vita più dignitosa della nostra”. Abitavamo in una casa piccola e modesta, costruita con assi di legno e un tetto in lamiera ondulata, ormai arrugginita. Il pavimento non era di cemento, ma quando puliva, la mamma lisciava così tanto la terra battuta che sembrava ci fosse la cera.
A un certo punto il papà ha cominciato a venire a casa sempre meno, ogni due o tre mesi, ed era sempre più nervoso e arrabbiato. Appena sentivamo la sua voce in cortile, noi bambini ci nascondevamo perché sapevamo che sarebbe iniziata l’ennesima litigata. Non posso dimenticare quella sera in cui, appena entrato in casa, si è messo a sbraitare: “Donna, dov’è il mio piatto di grano e fagioli?”. La mamma ha risposto che non aveva preparato niente perché non sapeva sarebbe tornato quel giorno, ma gliel’avrebbe fatto subito. Papà ci è passato vicino con una faccia scura e si è rivolto a me: “Cosa c’è da guardare? Non hai mai visto un uomo che torna a casa e vuole essere servito dalla moglie?”. Io non ho risposto, i miei fratelli neppure. Uno strano odore dolciastro mi ha invaso le narici, ho provato disgusto. Avevo solo 11 anni ma ho capito tutto: mio padre era un alcolizzato. Persino le scarpe puzzavano di vino. La mamma gli ha messo in tavola da mangiare. Dopo il primo cucchiaio si è alzato in piedi gridando che il cibo era freddo. Ha cominciato ad avvicinarsi alla mamma barcollando, lei era impaurita, sudava. Ha cercato di colpirla con un pugno, ma per fortuna è stramazzato a terra prima. L'abbiamo tirato su e portato a letto. La mattina dopo, non c’era più. La mamma come sempre l'ha difeso. Ci ha detto che era tornato a lavorare, per darci da mangiare.
La nostra vita è continuata così ancora per un anno. Il papà veniva a casa sempre più raramente, era sempre più ubriaco e violento. La mamma, sempre meno sorridente, sempre più magra e debole. Un giorno, qualche anno dopo, sono tornato da scuola e ho visto la casa piena di gente. Ho capito subito. La mamma era sdraiata a terra, su una stuoia. Il suo viso era affilato come uno scheletro e lei non rispondeva. L’ho scossa, l’ho chiamata a lungo, finché una zia mi ha trascinato via e mi ha detto: “La mamma è morta. Sii forte. Il papà sta tornando dal lavoro”.
Mi sono sentito perso. Cosa faccio adesso senza la mamma? Dopo il funerale il papà mi ha detto di dimenticarmi la scuola. Lui sarebbe tornato nei campi, io avrei dovuto occuparmi della casa, del campo e degli animali. E avrei badato ai miei fratelli, che invece avrebbero potuto continuare le elementari. A scuola avevo imparato che l’Aids è una malattia che non perdona, e che può entrare nelle case solo se uno dei genitori è cattivo. Sembrava proprio che la mamma fosse morta di quella malattia. E siccome lei era buona, era stato sicuramente il papà a portare la maledizione nella nostra famiglia”.
 
Fr Beppe


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Chaaria è un sogno da realizzare giorno per giorno.

Un luogo in cui vorrei che tutti i poveri e gli ammalati venissero accolti e curati.

Vorrei poter fare di più per questa gente, che non ha nulla e soffre per malattie facilmente curabili, se solo ci fossero i mezzi.

Vorrei smetterla di dire “vai altrove, perché non possiamo curarti”.

Anche perché andare altrove, qui, vuol dire aggiungere altra fatica, altro sudore, altro dolore, per uomini, donne e bambini che hanno già camminato per giorni interi.

E poi, andare dove?

Gli ospedali pubblici hanno poche medicine, quelli privati sono troppo costosi.

Ecco perché penso, ostinatamente, che il nostro ospedale sia un segno di speranza per questa gente. Non ci sarà tutto, ma facciamo il possibile. Anzi, l’impossibile.

Quello che mi muove, che ci muove, è la carità verso l’altro, verso tutti. Nessuno escluso.

Gesù ci ha detto di essere presenti nel più piccolo e nel più diseredato.

Questo è quello che facciamo, ogni giorno.


Fratel Beppe Gaido


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