mercoledì 3 aprile 2013

Il tempo che passa


Mi rendo conto di come passa il tempo. Mi sembra ieri che sono ripartito dall’Italia e sono già più di un anno. Il tempo qui ha una dimensione stranissima: per un verso sembra passare velocissimo, tanto che non te ne accorgi, e per l’altro è come se fosse fermo e tutto rimanesse immobile.
Nel mio cuore questi quindici mesi (da quando ho abbracciato mia mamma nel reparto di Medicina del Cottolengo di Torino) sembrano un decennio, tanto sono colmi di eventi, emozioni, sforzi e fatiche. Se rimango su questa dimensione mi pare che i giorni belli trascorsi in Italia siano solo un pallidissimo ricordo perso in un passato remoto. Ed è già passata anche Pasqua, il tempo in cui celebriamo la resurrezione di Gesù, ma anche quello in cui facciamo un esame di coscienza, ci interroghiamo e tentiamo dei bilanci sulla nostra vita cristiana.




Però dall’altra mi pare che i molti anni d’Africa siano volati via. Mi sembra ieri quando ancora ero a Londra, pieno di paura per quello che mi sarebbe capitato nel Continente Nero.
Ecco la dimensione così strana dello scorrere degli eventi, che qui sperimento ogni giorno. Ripenso a tanti incontri che hanno popolato la mia vita nel corso degli anni. 
Quante persone sono passate da Chaaria, hanno trascorso con noi un periodo della loro vita, con me hanno percorso un pezzo di cammino: sono stati incontri forti e significativi, anche se devo riconoscere un po’ “spezzettati” in quanto molti dei volontari con cui ho condiviso le mie impressioni, mi sono confidato e confrontato, ora sono scomparsi. Eh sì! Questo è l’aspetto duro e comunque inevitabile della scelta di essere costantemente aperti all’accoglienza: si creano rapporti intimi, alimentati da comuni ideali e da sensibilità similari, ma poi questi rapporti anche profondissimi si spezzano. 
Qualcuno ha il coraggio di dirtelo apertamente: “ Chaaria è stata una bellissima esperienza, ma ora ho bisogno di stimoli nuovi… ho intenzione di conoscere altre realtà nel mondo”
Altri invece promettono di tornare, o anche semplicemente di continuare a scrivere, ma poi il rullo compressore del quotidiano vivere in Italia, fa sbiadire sempre di più le percezioni provate nel periodo del volontariato, e non si sente più la necessità di continuare un rapporto epistolare con noi. 
L’Italia (o la Polonia) mangia e porta via. Chaaria è un insieme di emozioni fortissime, ma è spesso un fuoco di paglia e le sensazioni passano presto, non permettendo continuità alle amicizie in cui personalmente avevo molto sperato. Tutto questo è perfettamente lecito ed umano. 
Lo capisco benissimo che quando si torna nel proprio ambiente ci sono altri rapporti da curare… Ci si sposa, si diventa grandi; si possono avere gravi problemi economici; nascono i figli. Ciò non toglie che per noi questo sia un po’ “costoso” emotivamente e renda la nostra vita relazionale un pochino “a singhiozzo”, e a volte anche porti delle sofferenze e la subdola tentazione di non coinvolgerci più di tanto con dei volontari che al di là di tutto sono solo delle meteore destinate a scomparire.
Molti però sono rimasti; ritornano a Chaaria, scrivono e pregano per noi. Sono veramente nostri amici e per loro in particolare io rendo grazie a Dio. Essi mi danno la forza di non chiudermi e di continuare in questo girotondo in cui incontro persone sempre nuove, mi apro e faccio loro capire i miei sentimenti e le mie debolezze, sperando poi che loro non mi tradiscano e soprattutto che non spariscano troppo in fretta.
Quante idee poi sono apparse e scomparse nel corso degli anni. Quanti sogni di trasformare l’umanità hanno poi lasciato lo spazio ad una sorta di umiltà secondo cui oggi mi trovo a pensare che io non devo cambiare niente nel mondo… tutt’al più posso cercare di migliorare un po’ me stesso, se mai ci riuscirò.
Anche spiritualmente il tempo è come il fuoco del fonditore che brucia e fa cadere tutto ciò che era accessorio e non importante, lasciando in piedi solo alcune idee forti che pian piano arrivano a costituire una specie di fulcro su cui costruire la propria vita e per cui anche spenderla.
Ci sono stati tempi in cui a Chaaria si discuteva di grandi tematiche internazionali, o ci si confrontava sulla globalizzazione, o si facevano riflessioni più o meno filosofiche sulle colpe delle popolazioni africane nella genesi e nel mantenimento del sottosviluppo. 
Ora è come se il tempo mi avesse levigato il cuore e mi avesse seccato le corde vocali. Non ho più voglia di parlare, di esprimere giudizi, di proporre soluzioni dall’alto al basso. Adesso credo che l’unica risposta al male che c’è nel mondo sia il silenzio, accompagnato dal nostro impegno serio e costante nel servizio a chi soffre o è nella povertà. 
Tutti parlano oggi, e forse il parlare ci serve per calmare i sensi di colpa che il silenzio genera nella nostra coscienze. 
Sempre più do ragione a Padre Peppino Maggioni, ora in Paradiso, il quale mi diceva: “Il vero Missionario entra in una cultura in punta di piedi; per almeno dieci anni sta zitto ed osserva. Poi, potrà con umiltà provare a esprimere anche qualche punto di vista sul positivo o sul negativo della cultura delle persone a cui è stato mandato”.
Ma più profondamente ancora credo che il centro di gravità a cui il Signore mi sta attirando fortemente, giorno dopo giorno, sia l’interiorizzazione del fatto che nel povero che servo c’è Gesù. Sì, penso che questa sia la semplificazione esistenziale a cui Dio mi sta portando con l’aiuto della “macchina del tempo” che a Chaaria funziona in un modo un po’ strano. 
Piano piano mi rendo conto che tanti orpelli anche spirituali sono crollati; prendo coscienza di molte cose che per il passato mi erano sembrate centrali nel mio cammino, e a cui ora non credo più o a cui do sempre meno importanza.
Però questa idea-forza non viene meno e cresce giorno per giorno: io ho la possibilità di incontrare il Signore  tutti i giorni nelle persone che hanno bisogno del mio aiuto. E’ una specie di contemplazione nell’attività in cui ho la possibilità di avere Gesù tra le mani tutti i giorni e di servirlo sempre meglio nelle sue necessità fisiche e spirituali.
In tale sforzo mi aiuta moltissimo la spiritualità del Cottolengo quando mi incita a “non farmi chiamare due volte, ma a volare al letto del malato come sulle ali della carità”. Mi ricorda che i malati sono come “la pupilla dell’occhio” nella nostra vita quotidiana; sono la verifica del nostro cristianesimo, in cui abbiamo la quotidiana possibilità di verificare se in cappella abbiamo davvero pregato o se abbiamo solo blaterato parole che poi non sono diventate vita.
Quante cose cambiano con il tempo. Guardare indietro a quanto è successo dà sensazioni contraddittorie: a volte sensi di colpa per le occasioni perdute, per il bene non fatto o fatto male, per le nostre cattiverie a cui spesso ci siamo piegati ed adattati.  Altre volte nostalgia per gli amici che sono stati un po’ persi di vista nella foschia dei mesi che passano, o per un tempo in cui eravamo più giovani e forti, più efficienti e resistenti alla fatica. 
A volte soddisfazione per il cammino percorso; spesso la sorpresa per la mole di eventi che ci sono “passati addosso” e che indubbiamente ci hanno modellato come la mano del vasaio con la creta. 
Spesso un senso di sollievo nella consapevolezza che il tempo è come un grande medico che fascia tutte le nostre ferite, le addolcisce pian piano e riesce a ridonare un colore roseo anche ai dolori più lancinanti e ai periodi più oscuri.
Ma queste riflessioni forse non hanno nulla di nuovo; è solo che invecchiando, me ne rendo conto con più chiarezza. Infatti già i Salmi ci dicono che “ai Tuoi occhi mille anni sono come un soffio”, e che “è meglio un giorno nei Tuoi atri che mille altrove”
Mi sento un viaggiatore nel tempo; un itinerante inquieto e sempre alla ricerca di quella stella polare attorno a cui focalizzare il mio sforzo di unità interiore e di coerenza.

Fr Beppe Gaido



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Chaaria è un sogno da realizzare giorno per giorno.

Un luogo in cui vorrei che tutti i poveri e gli ammalati venissero accolti e curati.

Vorrei poter fare di più per questa gente, che non ha nulla e soffre per malattie facilmente curabili, se solo ci fossero i mezzi.

Vorrei smetterla di dire “vai altrove, perché non possiamo curarti”.

Anche perché andare altrove, qui, vuol dire aggiungere altra fatica, altro sudore, altro dolore, per uomini, donne e bambini che hanno già camminato per giorni interi.

E poi, andare dove?

Gli ospedali pubblici hanno poche medicine, quelli privati sono troppo costosi.

Ecco perché penso, ostinatamente, che il nostro ospedale sia un segno di speranza per questa gente. Non ci sarà tutto, ma facciamo il possibile. Anzi, l’impossibile.

Quello che mi muove, che ci muove, è la carità verso l’altro, verso tutti. Nessuno escluso.

Gesù ci ha detto di essere presenti nel più piccolo e nel più diseredato.

Questo è quello che facciamo, ogni giorno.


Fratel Beppe Gaido


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