Mi rendo conto di come passa il tempo. Mi sembra ieri che sono ripartito
dall’Italia e sono già più di un anno. Il tempo qui ha una dimensione
stranissima: per un verso sembra passare velocissimo, tanto che non te ne
accorgi, e per l’altro è come se fosse fermo e tutto rimanesse immobile.
Nel mio cuore questi quindici mesi (da quando ho abbracciato mia mamma
nel reparto di Medicina del Cottolengo di Torino) sembrano un decennio, tanto
sono colmi di eventi, emozioni, sforzi e fatiche. Se rimango su questa
dimensione mi pare che i giorni belli trascorsi in Italia siano solo un
pallidissimo ricordo perso in un passato remoto. Ed è già passata anche Pasqua,
il tempo in cui celebriamo la resurrezione di Gesù, ma anche quello in cui
facciamo un esame di coscienza, ci interroghiamo e tentiamo dei bilanci sulla
nostra vita cristiana.
Però dall’altra mi pare che i molti anni d’Africa siano volati via. Mi
sembra ieri quando ancora ero a Londra, pieno di paura per quello che mi
sarebbe capitato nel Continente Nero.
Ecco la dimensione così strana dello scorrere degli eventi, che qui
sperimento ogni giorno. Ripenso a tanti incontri che hanno popolato la mia vita
nel corso degli anni.
Quante persone sono passate da Chaaria, hanno trascorso
con noi un periodo della loro vita, con me hanno percorso un pezzo di cammino:
sono stati incontri forti e significativi, anche se devo riconoscere un po’
“spezzettati” in quanto molti dei volontari con cui ho condiviso le mie
impressioni, mi sono confidato e confrontato, ora sono scomparsi. Eh sì! Questo
è l’aspetto duro e comunque inevitabile della scelta di essere costantemente
aperti all’accoglienza: si creano rapporti intimi, alimentati da comuni ideali
e da sensibilità similari, ma poi questi rapporti anche profondissimi si
spezzano.
Qualcuno ha il coraggio di dirtelo apertamente: “ Chaaria è stata
una bellissima esperienza, ma ora ho bisogno di stimoli nuovi… ho intenzione di
conoscere altre realtà nel mondo”.
Altri invece promettono di tornare, o
anche semplicemente di continuare a scrivere, ma poi il rullo compressore del
quotidiano vivere in Italia, fa sbiadire sempre di più le percezioni provate
nel periodo del volontariato, e non si sente più la necessità di continuare un
rapporto epistolare con noi.
L’Italia (o la Polonia) mangia e porta via.
Chaaria è un insieme di emozioni fortissime, ma è spesso un fuoco di paglia e
le sensazioni passano presto, non permettendo continuità alle amicizie in cui
personalmente avevo molto sperato. Tutto questo è perfettamente lecito ed
umano.
Lo capisco benissimo che quando si torna nel proprio ambiente ci sono
altri rapporti da curare… Ci si sposa, si diventa grandi; si possono avere
gravi problemi economici; nascono i figli. Ciò non toglie che per noi questo
sia un po’ “costoso” emotivamente e renda la nostra vita relazionale un pochino
“a singhiozzo”, e a volte anche porti delle sofferenze e la subdola tentazione
di non coinvolgerci più di tanto con dei volontari che al di là di tutto sono
solo delle meteore destinate a scomparire.
Molti però sono rimasti; ritornano a Chaaria, scrivono e pregano per
noi. Sono veramente nostri amici e per loro in particolare io rendo grazie a
Dio. Essi mi danno la forza di non chiudermi e di continuare in questo
girotondo in cui incontro persone sempre nuove, mi apro e faccio loro capire i
miei sentimenti e le mie debolezze, sperando poi che loro non mi tradiscano e
soprattutto che non spariscano troppo in fretta.
Quante idee poi sono apparse e scomparse nel corso degli anni. Quanti
sogni di trasformare l’umanità hanno poi lasciato lo spazio ad una sorta di
umiltà secondo cui oggi mi trovo a pensare che io non devo cambiare niente nel
mondo… tutt’al più posso cercare di migliorare un po’ me stesso, se mai ci
riuscirò.
Anche spiritualmente il tempo è come il fuoco del fonditore che brucia e
fa cadere tutto ciò che era accessorio e non importante, lasciando in piedi
solo alcune idee forti che pian piano arrivano a costituire una specie di
fulcro su cui costruire la propria vita e per cui anche spenderla.
Ci sono stati tempi in cui a Chaaria si discuteva di grandi tematiche
internazionali, o ci si confrontava sulla globalizzazione, o si facevano
riflessioni più o meno filosofiche sulle colpe delle popolazioni africane nella
genesi e nel mantenimento del sottosviluppo.
Ora è come se il tempo mi avesse
levigato il cuore e mi avesse seccato le corde vocali. Non ho più voglia di
parlare, di esprimere giudizi, di proporre soluzioni dall’alto al basso. Adesso
credo che l’unica risposta al male che c’è nel mondo sia il silenzio,
accompagnato dal nostro impegno serio e costante nel servizio a chi soffre o è
nella povertà.
Tutti parlano oggi, e forse il parlare ci serve per calmare i
sensi di colpa che il silenzio genera nella nostra coscienze.
Sempre più do
ragione a Padre Peppino Maggioni, ora in Paradiso, il quale mi diceva: “Il
vero Missionario entra in una cultura in punta di piedi; per almeno dieci anni
sta zitto ed osserva. Poi, potrà con umiltà provare a esprimere anche qualche
punto di vista sul positivo o sul negativo della cultura delle persone a cui è
stato mandato”.
Ma più profondamente ancora credo che il centro di gravità a cui
il Signore mi sta attirando fortemente, giorno dopo giorno, sia
l’interiorizzazione del fatto che nel povero che servo c’è Gesù. Sì, penso che
questa sia la semplificazione esistenziale a cui Dio mi sta portando con
l’aiuto della “macchina del tempo” che a Chaaria funziona in un modo un po’
strano.
Piano piano mi rendo conto che tanti orpelli anche spirituali sono
crollati; prendo coscienza di molte cose che per il passato mi erano sembrate
centrali nel mio cammino, e a cui ora non credo più o a cui do sempre meno
importanza.
Però questa idea-forza non viene meno e cresce giorno per giorno: io ho
la possibilità di incontrare il Signore
tutti i giorni nelle persone che hanno bisogno del mio aiuto. E’ una
specie di contemplazione nell’attività in cui ho la possibilità di avere Gesù
tra le mani tutti i giorni e di servirlo sempre meglio nelle sue necessità
fisiche e spirituali.
In tale sforzo mi aiuta moltissimo la spiritualità del Cottolengo quando
mi incita a “non farmi chiamare due volte, ma a volare al letto del malato
come sulle ali della carità”. Mi ricorda che i malati sono come “la
pupilla dell’occhio” nella nostra vita quotidiana; sono la verifica del
nostro cristianesimo, in cui abbiamo la quotidiana possibilità di verificare se
in cappella abbiamo davvero pregato o se abbiamo solo blaterato parole che poi
non sono diventate vita.
Quante cose cambiano con il tempo. Guardare indietro a quanto è successo
dà sensazioni contraddittorie: a volte sensi di colpa per le occasioni perdute,
per il bene non fatto o fatto male, per le nostre cattiverie a cui spesso ci
siamo piegati ed adattati. Altre
volte nostalgia per gli amici che sono stati un po’ persi di vista nella
foschia dei mesi che passano, o per un tempo in cui eravamo più giovani e
forti, più efficienti e resistenti alla fatica.
A volte soddisfazione per il
cammino percorso; spesso la sorpresa per la mole di eventi che ci sono “passati
addosso” e che indubbiamente ci hanno modellato come la mano del vasaio con la
creta.
Spesso un senso di sollievo nella consapevolezza che il tempo è come un
grande medico che fascia tutte le nostre ferite, le addolcisce pian piano e
riesce a ridonare un colore roseo anche ai dolori più lancinanti e ai periodi
più oscuri.
Ma queste riflessioni forse non hanno nulla di nuovo; è solo che invecchiando,
me ne rendo conto con più chiarezza. Infatti già i Salmi ci dicono che “ai
Tuoi occhi mille anni sono come un soffio”, e che “è meglio un giorno
nei Tuoi atri che mille altrove”.
Mi sento un viaggiatore nel tempo; un
itinerante inquieto e sempre alla ricerca di quella stella polare
attorno a cui focalizzare il mio sforzo di unità interiore e di coerenza.
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