Chaaria non
è solo un ospedale che aiuta tantissima povera gente. Nella nostra missione
infatti ospitiamo anche 53 disabili mentali che qui hanno trovato la loro casa.
Si tratta di un gruppo molto eterogeneo dal punto di vista della gravità del
deficit mentale, della patologia ad esso sottosstante e, non ultimo, dell’età
media che varia dai 15 ai 65 anni.
Noi siamo la loro unica famiglia. Siamo i loro
genitori, ed essi sono i nostri figli. Li chiamiamo “buoni figli”, seguendo l’insegnamento
di San Giuseppe Cottolengo, il quale così li definiva, in aperta
contrapposizione ai termini che in quegli anni venivano comunemente usati nei
loro confronti (fatui, scemi, cretini, ecc). Essi sono quindi i nostri “buoni
figli”: buoni perchè semplici, umili, abbandonati ed indifesi; buoni perchè
pieni di tenerezza e di riconoscenza.
Il nostro fondatore li definiva spesso le “perle
della Piccola Casa”; altre volte, per richiamarne la centralità nella nostra
spiritualità e nella nostra vita, li definiva “la pupilla della Piccola Casa”.
Fortissimo è poi il termine padroni a loro riferito: “sono essi i nostri
padroni”; noi quindi non ne siamo che i servi.
Fedeli agli insegnamenti del Cottolengo, anche a
Chaaria ci sforziamo ogni giorno di servirli ed onorarli: la nostra fede ci
dice che in quelle umili creature, che agli occhi del mondo non sono che uno
scarto, noi possiamo in realtà contemplare, assistere ed avere tra le mani Gesù
stesso. Con il fondatore poi, anche noi crediamo che più essi sono disabili,
deformi o difficili, e più da vicino rappresentano Gesù Cristo che si fa
riconoscere nei più piccoli (Mt cap 25).
La maggior parte dei “buoni figli” che hanno
trovato casa a Chaaria sono orfani, e praticamente tutti sono completamente
abbandonati.
Può capitare infatti che all’inizio noi siamo in
contatto con le famiglie: soprattutto prima del ricovero, essi promettono che
verranno a visitare il cliente che intendiamo accogliere, ci assicurano
collaborazione e sostegno; però, non appena ottengono quello che desiderano ed
il parente disabile è ricoverato nel nostro centro, pian piano diradano le
visite, fino a scomparire completamente.
Ovviamente tali comportamenti ci preoccupano
moltissimo, in quando comprendiamo l’importanza del coinvolgimento delle famiglie
nel piano educativo dei nostri ragazzi; vorremmo che le persone care ci
aiutassero nel prenderci cura di loro, per non sradicarli completamente dall’ambiente
domestico. D’altra parte ci rendiamo conto che il disinteresse da parte dei
familiari è in se stesso una componente centrale della povertà dei nostri
ricoverati: essi sono realmente abbandonati, non voluti, dimenticati e
scartati. Anche quando forziamo un po’ la mano ed obblighiamo i parenti a
prenderseli a casa per qualche giorno, sovente notiamo che i “buoni figli”
ritornano al centro malati, disidratati, sporchi e qualche volta pieni di
pidocchi.
E’ sotto gli occhi di tutti che per la stragrande
maggioranza di loro noi siamo davvero l’unica famiglia: questo implica non solo
che essi vivranno con noi fino all’ultimo respiro, ma anche che saranno sepolti
nel nostro piccolo cimitero, magari senza un singolo parente presente al
funerale.
Alcuni dei “buoni figli” sono realmente poveri, e
certamente le famiglie non potrebbero materialmente prendersi cura di loro;
qualcun altro non ha assolutamente nessuno (pensiamo a Njeru o a Isidoro; come
non citare poi Kimani che fu trovato tra i “ragazzi di strada” di Nairobi).
Altri però hanno alle spalle delle famiglie
economicamente stabili, che però rifiutano di prendersi cura di loro e a volte
anche di pagare la piccola retta mensile che farebbe tanto comodo al
sostentamento della missione.
Comunque sia, in genere non siamo mai in grado di
reinserirli in famiglia, in quanto qualcuno è realmente solo, ed altri sono
completamente abbandonati.
Il centro originariamente era stato costruito per
30 ricoverati, ma adesso in esso ne ospitiamo 53: la ragione di un tale
sovraffollamento va ricercata nel fatto che abbiamo tantissime richieste per
casi davvero pietosi. Da una parte vorremmo dire: “spiacenti, siamo al
completo”; dall’altra però ci manca il coraggio di farlo e continuiamo ad
aggiungere posti letto. Nonostante tutti i nostri sforzi, anche oggi abbiamo comunque
centinaia di richieste a cui non siamo in grado di rispondere: il motivo di una
tale situazione sta nel fatto che nel Meru sono pochissime le strutture che si
prendono cura di handicappati gravissimi come i nostri.
Tecnicamente,
la nostra struttura dovrebbe essere esclusivamente per disabili mentali;
spesso ci troviamo però di fronte a difficili casi di coscienza, quando per
esempio ci viene presentata una persona bisognosa, ma con disabilità soltanto
fisica (normalmente dopo un trauma che ha causato danno irreversibile alla
spina dorsale e conseguente paralisi): noi dovremmo rifiutare pazienti del
genere, ma la totale assenza di strutture a cui riferirli ci porta a volte a
fare delle eccezioni e ad accettare anche disabilità di questo tipo (con tutti
i problemi psicologici e relazionali che in seguito si possono creare quando
una persona normale vive insieme ad un debole mentale).
Qualcuno talvolta ci chiede quali siano i criteri
da noi seguiti nel ricovero dei nostri “buoni figli”, visto che non siamo in
grado di accogliere tutti coloro che ne fanno richiesta.
Seguendo la spiritualità di San Giuseppe
Cottolengo, normalmente noi cerchiamo di mantenerci fedeli a due criteri
fondamentali: il primo è quello di dare priorità assoluta al più povero, o dal
punto di vista economico oppure per il totale abbandono; nel caso due persone
abbiano più o meno lo stesso livello di povertà ed il posto a disposizione sia
solo uno, allora scegliamo quella con la
disabilità più grave.
Vivere con i buoni figli onestamente non è affatto
semplice: qualche volta essi puzzano tremendamente; sovente sono incontinent di
urina e feci; bisogna imboccarli, lavarli, far loro la doccia, metterli in
carrozzina prima e più tardi di nuovo a letto. Dobbiamo essere doppiamente
attenti a capire quando non stanno bene, perchè di solito non sono in grado di
esprimersi e di dirci che hanno dei problemi.
Però, onestamente parlando, vivere con loro è anche
estremamente gratificante, perchè essi sono molto teneri ed affettuosi, e sanno
davvero farci sentire l’affetto che provano per noi. Spendendo la vita con
loro, giorno dopo giorno ci rendiamo conto che è molto di più quello che
riceviamo da loro, rispetto a quanto per loro possiamo fare.
Essendo la loro unica famiglia, e riconoscendo in
loro una special presenza di Gesù che ha voluto essere presente nei piccoli,
noi cerchiamo ogni giorno di dare loro il meglio: per questo non solo li
laviamo, nutriamo e vestiamo; non solo ci prendiamo cura di tutti i loro
bisogni fisiologici, ma cerchiamo anche di promuoverli come persone, offrendo
loro scuola speciale, laboratori occupazionali, gite al di fuori del centro,
piccole festicciole casalinghe e celebrazioni familiari: se essi sono “buoni
figli”, noi abbiamo infatti il dovere di essere buoni genitori. Inoltre con
loro anche preghiamo, in quanto ci riconosciamo tutti figli di un buon Padre
che si prende cura di noi con la Sua Divina Provvidenza.
Quando sono con i “buoni figli”, chiaramente
percepisco nel cuore che la nostra convivenza è uno scambio: io dono loro il
mio tempo, la mia forza, le mie capacità, il mio servizio; ed essi mi ripagano
ampiamente con la loro bontà, con la loro semplicità e con il bene tenero che
sanno esprimermi. Mi sento chiamato chiamato ad essere la mente di chi è nato
incapace di usare la sua; ad essere le gambe di coloro che sono condannati ad
una vita in carrozzella; ad essere le mani di quelle persone tanto sfortunate
da non essere in grado neppure di mangiare o di lavarsi da sole. Questa è la meravigliosa
bellezza della nostra vita con i “buoni figli”: non ci sono benefattori o
supereroi; c’è solo una famiglia in cui i sani camminano insieme ai disabili su
un piano di assoluta eguaglianza, condividendo i talenti che ognuno ha
gratuitamente ricevuto da Dio Padre.
PS: nella foto un momento della Messa solenne, il
giorno di San Giuseppe Cottolengo.
Fr Beppe Gaido
1 commento:
"Un ricordo indelebile, un giorno d'amore vissuto con loro, i loro sguardi innocenti sono custoditi nel mio cuore. Se le mie braccia fossero grandi li abbraccerei tutto. Con affetto e fratellanza rivolgo a loro il mio pensiero. Abbracciali da parte mia Beppe." Francesco74
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