Il sole stava scendendo lentamente. Lo
guardavo, rosso sopra gli alberi, mentre camminavo a passo veloce con il mio
amico Francis. Avevamo fretta di arrivare in cima alla collina per contemplare
l’ultimo tramonto prima che egli ripartisse per l'Italia.
Il sentiero si inerpicavava ripido, una
fresca brezza faceva ondulare le alte erbe dei campi incolti. Era un piacere
camminare liberi per una mezz’ora di pausa, dopo una giornata massacrante di
lavoro in ospedale. Francis aveva una fifa matta delle zanzare e mi diceva di
camminare veloce, perché sapeva che, al tramonto, esse diventano più affamate
di sangue umano.
Mentre salivamo i passanti ci chiamavano
urlando : “Muga! Mugeni! Ore omwega? Eta buega!" (Ciao, state bene? Buona
passeggiata!).
La gente a quell’ora ritornava alle modeste
abitazioni e ci ci salutava sorridendo. Dopo tanti anni di sacrifici e di
servizio a Chaaria, ci conoscevano bene;
i nostri volti erano ormai familiari e noi eravamo entrati, a pieno titolo, a
far parte del loro villaggio. Francis era entusiasta, anche se vedevo nei suoi
occhi la malinconia per la partenza del giorno dopo.
Arrancando su per la collina, arrivammo al
grande baobab che ancora non era stato abbattuto dalla gente, per ricavarne
legname da costruzione. Nella luce fioca del tramonto si ergeva davanti a noi
maestoso, solitario e triste. Sussurrai a Francis: “Pensa che è qui e cresce su
questa collina da millenni!”.
Eravamo estasiati di fronte a quell’albero,
che spiccava verso il cielo come un gigante, coperto di muffa grigia sotto il
cielo che scoloriva. Spiegai a Francis
che nei periodi di siccità è spoglio, ma fiorisce non appena comincia a
piovere. I suoi frutti pendono alle estremità dei rami, che si assottigliano
come esili dita. Anche se una tempesta lo abbatte, riesce a sopravvivere. La
corteccia è fatta per rifrangere i raggi del sole, disperdendo solo un numero
minimo di gocce delle tante tonnellate d'acqua nascoste nella polpa porosa, che
- si dice - piace tanto agli elefanti. Ripetei al mio amico che questo albero
rimane nella mia mente come l'immagine della gente d'Africa, forte, coriacea,
sempre in lotta per la vita e capace di rialzarsi dopo ogni uragano.
Riprendemmo
poi a camminare veloci, per non essere sorpresi dal buio; provavamo un piacere
fraterno nel parlare liberamente, ci faceva bene dentro e ci lasciava più buoni.
Il nostro sguardo si perdeva oltre le colline,
che apparivano bellissime, arrossate dalla luce del tramonto, e sognammo, per
un attimo, un mondo diverso, più umano, più giusto e luminoso: un mondo senza
violenza nel quale l’umanita possa
vivere in armonia senza ammazzare i propri simili.
Nella nostra passeggiata incontrammo tanta
gente ed un nugolo di bambini scalzi che continuavano a chiedere: “caramella,
caramella”. Notavamo una serenità di fondo; in alcune case, dove probabilmente
c’era qualche celebrazione, assistemmo
con stupore alle danze, ai canti, ai suoni, alle preghiera dense di speranza e
cariche di serenità; intuimmo la festa della gente e la gioia dei colori; per un attimo gustammo la semplicità dei
poveri e toccammo con mano quanto per loro sia importante pregare e sentire che
Dio è loro vicino. Anche le canzoni che canticchiano tra sè e sè sono quasi
sempre a sfondo religioso: qui una vita senza Dio non è compresa. Non importa
quale Dio! Può essere il Dio dei Cristiani o quello del Musulmani, quello degli
Indu o quello che, secondo la tradizione ancestrale, abita la sommità del Monte
Kenya...ma non si può pensare ad un essere umano che non ha fede in Dio.
Incontrammo baracche povere, senza corrente elettrica, senz’acqua e senza
protezione alcuna. Dalle fessure entrano gli insetti, che, annidandosi nei pori
della pelle, sicuramente portano malattie e infezioni ai poveri abitanti che,
vedendoci arrivare nei pressi della loro magione, ci venivano incontro
sorridenti. I bambini poi erano bellissimi: in poco
tempo formarono una lunga coda che ci
seguiva schiamazzando e cantando. Sembravano tutti della stessa età. Portavano
addosso pochi stracci; molti avevano indosso la divisa scolastica ormai
sgualcita: evidentemente a casa non
avevano altri vestiti. Ci accompagnarono alla cima della collina, tra piante di
papaia, mango, canne da zucchero e banane. Davanti ad una capanna scorgemmo una
donna intenta a cucinare: sul fuoco un pentolone dove bollivano legumi e
polenta bianca di granoturco. Passammo in posti bellissimi tra arbusti ed
alberi secolari; i bananeti erano spesso i tratti di sentiero più affascinanti.
Lungo il cammino incontrammo case di fango e paglia, altre di legno e “mabati”
(lamiera ondulata), altre anche in pietra: a Chaaria la sperequazione sociale
tra chi è molto ricco e chi non ha nulla è particolarmente evidente. I bambini sono semplici e non si vergognano a
dirci che quella baracca di fango apparteneva alla loro famiglia. Un adulto
molto probabilmente non lo farebbe mai perchè si vergognerebbe davanti ad un
“bianco”, che per definizione e stereotipo deve essere per forza ricco.
Arrivammo in cima, appena in tempo per
assistere ad un tramonto mozzafiato, con colori vivissimi e raggi di luce che
ci fecero pensare alla mano di Dio che ci aveva protetti in questa breve gitarella.
Francis si attardava facendo foto,
stregato dal maestoso spettacolo che la natura ci offriva. Io insistetti perchè, dopo il calar del sole, il buio
arriva molto in fretta. Per un attimo lui non ne volle sapere affascinato nella contemplazione del tramonto.
“Forza, bisogna tornare in fretta perchè non
abbiamo le pile e fra un po’ non si vedrà più niente!”… Pochi minuti più tardi,
la Provvidenza ci fece comunque incontrare una persona a noi molto cara: “Che
bello; adesso siamo più tranquilli, perchè lei ci vede anche se è notte e poi,
essendo di qui, ci può proteggere un po’ anche dagli ubriaconi che, a quest’ora
di sabato, non possono mancare”.
La notte, calata di colpo, ci regalo’
l’ultimo dono di Dio: una stellata incredibile che in Italia puoi vedere solo sulla cima di una montagna, al buio. Chaaria è
sull’equatore e questo fa sì che da qui si possano ammirare tanto le
costellazione dell’emisfero nord, quanto quelle dell’emisfero sud. Francis è un
esperto e mi spiego’ un sacco di cose mentre camminavamo allo scuro, cercando
di non inciampare. Io lo ascoltavo a mala pena, perchè molto impegnato a
cercare di capire dove mettere i piedi nel buio, che ora era diventato assoluto.
Contemplavamo la via Lattea e poi cercavamo di guardare per terra dopo aver
incespicato per l’ennesima volta. Le casette attorno a noi erano ora buie o
appena illuminate dalla lampada a cherosene e questo faceva da contrasto con
l’insieme di luci al neon che ora appariva all’orizzonte: “ecco il Cottolengo
Centre”, ci disse la nostra guida. Francis paragono’ questo insieme di luci,
che si stagliava di fronte alla nera collina, al castello dell’Innominato di
manzoniana memoria. Io guardavo e, considerando lo stacco tecnologico tra la nostra
dimora e quelle che avevamo visto per strada, non potevo che acconsentire.
Arrivati al cancello, salutammo il
nostro angelo custode che riprese il cammino nell’oscurità.
Corsi in cappella, sperando di
arrivare in tempo almeno per il Vespro. Un momento di grande bellezza; anche la
stanchezza fisica ed il dolore alle gambe certamente mi aiutarono a purificarmi un po’ dalle tossine e tensioni accumulate in ospedale.
Entrai in cappella, impolverato e
sporco, ma con il cuore pieno di riconoscenza verso il Signore.
Fr Beppe
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