Mi hanno chiamato alle
ore 21 perchè una donna sola giace nella sua baracca in travaglio di parto e
non riesce a camminare.
Parto con l’ambulanza e
percorro circa 15 chilometri sulla strada sterrata che collega Chaaria a
Nkabune, passando per Mbajone.
E’ buio pesto ed incontro solo pochi pedoni che
camminano nelle tenebre senza bisogno di una torcia elettrica.
Mi sono sempre
chiesto come fanno a non inciampare ed a capire dove stanno andando.
Arrivo in una baracca
desolata, sulla cima di una collinetta.
L’abitazione è completamente isolata,
almeno da quel che posso capire nel buio della notte.
Ne cortile vedo un nugolo
di bambini ed alcune donne che si prendono cura di loro.
Evidentemente non
possono entrare in casa (costituita da un monolocale), mentre la mamma sta per
dare alla luce l’ennesimo fratellino.
Nei dintorni non vedo
alcun uomo: non me ne stupisco perchè so che, secondo la tradizione locale, il
parto è un evento assolutamente femminile, ed i maschi non ci si devono immischiare.
Chiedo in giro chi sono tutte quelle donne, e mi viene riferito che sono delle
vicine di casa accorse per dare una mano: evidentemente le tenebre brulicano di
altre abitazioni che la mia povera vista non riesce a scorgere.
Entro in casa insieme all’infermiera
che mi ha accompagnato. Non c’è elettricità e questa famiglia povera non ha i
pannelli solari per l’illuminazione. La donna giace sul pavimento di terra
battuta e sembra vicina per le ultime spinte prima del parto.
Con l’ausilio
delle torce elettriche che ci siamo portati e della lampada a cherosene di
quella magione, visitiamo la donna in preda a fortissime contrazioni. E’ madida
di sudore ed ha la cute molto fredda.
La pressione comunque va bene. E’ praticamente
impossibile rendersi conto se è anemica guardando le congiuntive con le nostre
pile: non c’è luce abbastanza.
La mia infermiera compie gentilmente la visita
ginecologica e mi sussurra in un orecchio che non la possiamo assolutamente
trasportare fino a Chaaria. La presentazione è podalica, ma il bimbo sta per
venire al mondo: “se cerchiamo di caricarla in ambulanza, partorirà in macchina
senza raggiungere l’ospedale”.
Mi rassegno
all’ineluttabile: “hai portato tutto? Ti sei ricordata anche dei farmaci e
dell’aspiratore a pedale per il neonato?”
“Sì, tutto okay, doctor.
Vado a prendere tutto. Ho portato pure dei camici per il parto”
Un paio di donne del
villaggio si sistemano dalla parte della testa ed incoraggiano la donna durante
le spinte; io mi metto in ginocchio di fronte a lei e sudo copiosamente mentre,
in quella posizione scomoda, compio le non facili manovre richieste per il
parto podalico.
La mia fortuna è che questo sarà il nono figlio per questa
mamma non ancora vecchia, e quindi le speranze di successo sono alte.
Infatti, nonostante
qualche minuto estremamente ansiogeno quando la testa del nascituro si inchioda
per un po’ alla mamma e non ne vuole sapere di uscire, poi tutto procede liscio
come l’olio: nasce un maschietto ciccione con tanta voglia di vivere e di strillare
a pieni polmoni.
In qualche modo la mia infermiera si ingegna a prepararsi un
fasciatoio sul letto della donna, ed alla luce della lampada aspira meconio
dalle narici del neonato pompando vigorosamente sul piccolo mantice
dell’aspiratore a pedale.
Abbiamo qualche difficoltà con la placenta che tarda
a staccarsi, ma anche questa fase infine si conclude senza complicazioni.
Tutti sono contenti
(onestamente anche noi che non siamo abituati a seguire un parto a domicilio):
le donne presenti parlano forte con toni di voce chiaramente eccitati. I
bambini non vengono fatti entrare in casa ma il neonato viene portato fuori
come un trofeo, perchè anch’essi possano ammirarlo: pure fuori l’ilarità
impazza ed i bimbi fanno un sacco di schiamazzi.
A questo punto la mia
infermiera mi dice che è meglio comunque portare entrambi in ospedale. Bisogna
infatti pesare il bambino e mettergli le
gocce negli occhi. Inoltre la donna sembra davvero esausta e potrebbe essere
molto anemica, o magari anche HIV positiva. Anche lei ha bisogno di
osservazione e di unteriori indagini cliniche.
Le “levatrici” del
villaggio però si oppongono nella maniera più assoluta e dicono che ora è tutto
finito e che di noi non c’è più bisogno.
Dobbiamo altercare per un
po’ e la loro opposizione si placa solo quando esse tentano di far camminare la
puerpera per portarla a letto e lei stramazza a terra svenuta: “avete visto che
c’è bisogno di ospedale? Dobbiamo capire se ha bisogno di trafusione o di altre
medicine. Dov’è il marito? Voglio che decida lui!”
La più anziana delle
donne presenti prende la parola e mi dice che lo sposo è lontano per lavoro e
che quindi al momento non è rintracciablie; comunque, vista la situazione, lei
stessa ci dà il permesso di portare mamma e neonato a Chaaria.
Viaggiamo quasi a passo
d’uomo per non far star peggio la donna, che in posizione orizzontale è
cosciente, ma perde i sensi se si mette in piedi. La strada è veramente pessima
e non ci permette di correre.
Arrivati in ospedale troviamo che la mamma ha un’emoglobina
di quattro grammi, e procediamo quindi immediatamente alla trafusione:
fortunatamente abbiamo sangue del suo gruppo.
Il neonato invece
continua a star benone.
Tutto si mette comunque a posto e riesco a dimettere la
paziente dopo due giorni. Prima di mandarla a casa insieme alle stesse donne
che avevo incontrato nella sua baracca, le chiedo liberamente: “come mai fate
così tanti figli? Non pensi che più figli hai e più sarà difficile nutrirli
adeguatamente, trovare i soldi per le medicine,mandarli a scuola e dar loro un
titolo di studi che li faccia uscire dalla povertà?”
Le mi risponde con
semplicità disarmante: “i figli sono la nostra ricchezza. Quando crescono, i
ragazzi aiutano nei campi e si prendono
cura delle mucche anche quando il padre non c’è; essi poi, quando sono un po’
più grandi possono anche far la guardia alla casa e difendermi dai ladri e
dagli animali selvaggi.
E’ vero che poi dopo la circoncisione iniziano una vita
autonoma, ma per molti anni sono con me. Le ragazze stanno con me fino al
matrimonio: mi aiutano in casa e nei campi, e fanno tanto per me.
I figli sono
anche il bastone della nostra vecchiaia e si prenderanno cura di noi quando
siamo anziani. Inoltre, non tutti i figli che nascono, poi riescono a diventare
adulti: molti di loro vengono colpiti da malattia e non ce la fanno: noi
facciamo magari dieci figli, nella speranza che almeno cinque diventino adulti.
Nel mio caso due sono già morti in tenera età a causa della malaria”.
Non so cosa rispondere a
questa logica, certamente lontana dalla nostra occidentale, ma non certo
sbagliata.
Nel mio cuore nasce un dubbio: forse hanno ragione loro...guarda
come sono vecchie e scoraggiate le società occidentali.
Comunque non lo so
davvero, e non ho neppure gli strumenti per capire appieno.
Come sempre, mi dico che
io sono chiamato a servire e non a giudicare.
Saluto la mamma che, a
piedi, si porta a casa il suo ennesimo pargoletto.
Fr Beppe Gaido
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