Ricevo in ambulatorio una
paziente di etnia Rendille.
Ha i capelli rasati alla
maschietto ed è tutta adorna di braccialetti e collari, come da tradizione
della sua tribù.
Non riesco a visitarla da
solo perchè non sa una parola di inglese o kiswahili, e devo quindi chiamare un
traduttore.
Con lei entra un uomo
molto più anziano che pare conoscermi perchè mi saluta come se fossimo vecchi
amici. Io non lo ricordo, anche se lui insiste che è stato a lungo mio
paziente.
Gli chiedo se la donna è
sua moglie, ma lui dice di no; afferma invece di essere un amico del marito che
è rimasto a casa.
Insisto e domando se non
ci fosse la possibilità che a tradurre fosse un parente più stretto.
Lui candidamente afferma
che fuori c’è il padre della donna, ma che anche lui conosce solo la lingua
rendille: non ci sono quindi alternative!
Mi rassegno a fare un’ecografia
pelvica per motivi di infertilità alla presenza di un estraneo.
E’ difficile per me fare
le solite domande del caso alla donna, visto che a tradurre c’è una persona di
sesso diverso che non ha nulla a che fare con la sua relazione coniugale.
La paziente è comunque
tranquilla e rassegnata e pare che per lei tutto sia assolutamente normale:
evidentemente questa è stata la sua condizione di vita sin dalla nascita!
All’ecografia risulta che
la ragione dell’infertilità possa essere un grosso fibroma uterino sottomucoso
che occupa completamente la cavità endometriale.
Si tratta di fare una
miomectomia, nella speranza che poi la donna possa concepire e portare a
termine una gravidanza.
In kiswahili spiego la
cosa all’uomo che dovrebbe fare da traduttore: lui non chiede niente alla signora,
acconsente all’intervento e mi dà il permesso di procedere al ricovero.
Istitivamente io mi
inalbero e gli impongo di domandare alla paziente se lei è d’accordo di farsi
operare.
L’uomo però non le
rivolge la parola e mi ripete che non ci sono problemi e che, tornando al
villaggio, avrebbe informato lui il marito.
Nuovamente insisto che
non posso fare l’operazione senza il parere della signora, in quanto il corpo è
suo e non del marito.
A questo punto l’uomo mi
chiede il permesso di uscire dall’ambulatorio; in sala d’attesa lo vedo confabulare
con il padre di lei; dopo pochi minuti ritornano nel mio ufficio entrambi e mi
dicono è tutto a posto e che l’intervento si può fare.
Io mi irrigidisco ed
impongo che lo si chieda anche alla malata.
A malincuore il
traduttore colloquia a lungo con lei usando un tono di voce apparentemente agitato
e collerico (non posso essere sicuro se si tratti solo di inflessione
dialettale o di un atteggiamento volutamente duro): la donna non risponde e
guarda il pavimento. Personalmente non vedo segni di assenso neppure con il
capo. Evidentemente nella loro cultura vale il proverbio: “chi tace,
acconsente”.
Nuovamente i due uomini
mi sorridono ed affermano che la paziente è d’accordo.
Mi rassegno e la ricovero
con una punta di tristezza nel cuore.
Povere donne del Nord!
Senza diritti, senza privacy, senza voce in capitolo nemmeno per quanto
riguarda la loro vita intima e matrimoniale o la loro salute!
Solo vivendo in Africa per
anni ho potuto essere testimone oculare di certi estremi della cultura
maschilista!
Fr Beppe Gaido
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