venerdì 11 marzo 2016

Emergenze

Antony è arrivato in ospedale con dolori addominali acuti.
La pancia era brutta, vagamente distesa e con un certo grado di peritonismo.
L’ecografia dimostrava del liquido nella grande cavità peritoneale, mentre le anse apparivano dilatate e senza un’efficace peristalsi.
La diagnosi non era così chiara: avrebbe potuto trattarsi di ileo meccanico, ma l’ascite ci faceva sospettare una peritonite...anche se i segni clinici non erano così evidenti e non si potevano certo definire da manuale.
Il paziente stava davvero male. Era abbastanza disidratato e la palpazione addominale era molto dolente.
Siamo entrati in sala colmi di ottimismo ritenendo che potesse trattarsi di un volvolo intestinale che avremmo velocemente risolto con una derotazione.
Invece ci siamo trovati di fronte un quadro disastroso e del tutto inaspettato: si trattava effettivamente di volvolo, ma eravamo intervenuti ormai troppo tardi, in quanto già si era instaurata un’estesissima necrosi ileale (quello che sui libri chiamiamo infarto intestinale).
La parte necrotica andava dalla valvola ileocecale su verso il digiuno ed era lunga più di un metro.
E’ stato quindi un intervento lungo e difficile, con paziente abbastanza instabile anche durante l’operazione. Si è trattato purtroppo di fare una lunga resezione ileale, unita ad asportazione del cieco, e seguita poi da anastomosi ileo-colica sull’ascendente.


Sappiamo che in Italia i pazienti con infarto intestinale muoiono quasi tutti, ma questo è dovuto al fatto che si tratta in genere di vecchietti con grossi problemi ischemici anche nella parte di intestino superstite.
Il nostro paziente è invece molto giovane (non ha ancora 40 anni), e la causa della necrosi non era ischemica ma meccanica (da volvolo).
Proprio per questo abbiamo fondata speranza che ce la farà e che potrà sopravvivere con una buona qualità di vita anche dopo aver perso più di un metro di intestino.
Almeno questo è quanto speriamo e per cui preghiamo.

Fr Beppe


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Chaaria è un sogno da realizzare giorno per giorno.

Un luogo in cui vorrei che tutti i poveri e gli ammalati venissero accolti e curati.

Vorrei poter fare di più per questa gente, che non ha nulla e soffre per malattie facilmente curabili, se solo ci fossero i mezzi.

Vorrei smetterla di dire “vai altrove, perché non possiamo curarti”.

Anche perché andare altrove, qui, vuol dire aggiungere altra fatica, altro sudore, altro dolore, per uomini, donne e bambini che hanno già camminato per giorni interi.

E poi, andare dove?

Gli ospedali pubblici hanno poche medicine, quelli privati sono troppo costosi.

Ecco perché penso, ostinatamente, che il nostro ospedale sia un segno di speranza per questa gente. Non ci sarà tutto, ma facciamo il possibile. Anzi, l’impossibile.

Quello che mi muove, che ci muove, è la carità verso l’altro, verso tutti. Nessuno escluso.

Gesù ci ha detto di essere presenti nel più piccolo e nel più diseredato.

Questo è quello che facciamo, ogni giorno.


Fratel Beppe Gaido


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