giovedì 31 marzo 2016

Un momento di terribile scoraggiamento

Abbiamo ricevuto un paziente di circa cinquant'anni in preda a continue convulsioni. Aveva anche una certa rigidità sia nucale che ai quattro arti. 
Era in coma profondo. Non aveva febbre e non pareva un caso di malaria cerebrale o di meningite. 
Aveva invece segni di lato, con apparente emiplegia destra, deviazione della rima buccale ed anisocoria pupillare.
Era inoltre severamente iperteso con valori pressori di 230/150.
Per l'ipertensione abbiamo immediatamente predisposto una terapia in flebo con idralazina: abbiamo stabilito una bassa dose iniziale, in quanto volevamo che la pressione scendesse lentamente, al fine di evitare ulteriori accidenti ischemici cerebrali.
Le convulsioni (tonico-cloniche generalizzate di tipo Jackoniano) però continuavano ed è stato giocoforza decidere di usare del diazepam in vena, secondo le linee guida nazionali.
Dovevamo "stoppare" quelle crisi comiziali subentranti, per scongiurare ulteriori danni cerebrali!
Abbiamo iniettato il farmaco anticomiziale a bolo, ma molto lentamente: lo avevamo fatto tantissime altre volte e normalmente non avevamo avuto problemi.


Il nostro paziente invece è rapidamente passato da uno stato di male epilettico ad un arresto respiratorio da cui non siamo più riusciti a riprenderlo, nonostante tutti i nostri tentativi di rianimazione.
E' stato un momento tremendo, di sensi di colpa quasi insostenibili: eppure abbiamo fatto quello che si doveva fare; abbiamo seguito le linee guida terapeutiche del Kenya; ed abbiamo anche iniettato la medicina con estrema prudenza. Abbiamo inoltre iniziato immediatamente i protocolli di rianimazione.
Ma tutto è stato inutile.
Qualcuno mi diceva per consolarmi: le condizioni cliniche erano così gravi e probabilmente l'emorragia cerebrale così estesa che il paziente sarebbe morto comunque.
Dal punto di vista psicologico tuttavia, per me sarebbe più facile se il trapasso fosse avvenuto prima della somministrazione del valium, che è stata una decisione terapeutica mia, che ritenevo giusta, ma che non ha davvero ottenuto l'effetto desiderato.
Non mi resta che pregare per quest'uomo e per la sua famiglia: a Chaaria ci è rimasto per meno di due ore...e non siamo riusciti a salvarlo.

PS: Oggi desidero anche ringraziare di vero cuore Anna Pozzi, giornalista della rivista "Mondo e Missione" e scrittrice, la quale ha trascorso due giorni con noi a Chaaria, visitando attentamente la missione e partecipando alle attività cliniche dell'ospedale per una intera giornata. Sappiamo che Anna, con la sua penna di giornalista e scrittrice, ci aiuterà molto a diffondere la "buona novella" di servizio, donazione ed amore che a Chaaria cerchiamo di incarnare ogni giorno.
Speriamo di rimanere in contatto e di mantenere rapporti di amicizia e collaborazione anche editoriale.

Fr Beppe


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Chaaria è un sogno da realizzare giorno per giorno.

Un luogo in cui vorrei che tutti i poveri e gli ammalati venissero accolti e curati.

Vorrei poter fare di più per questa gente, che non ha nulla e soffre per malattie facilmente curabili, se solo ci fossero i mezzi.

Vorrei smetterla di dire “vai altrove, perché non possiamo curarti”.

Anche perché andare altrove, qui, vuol dire aggiungere altra fatica, altro sudore, altro dolore, per uomini, donne e bambini che hanno già camminato per giorni interi.

E poi, andare dove?

Gli ospedali pubblici hanno poche medicine, quelli privati sono troppo costosi.

Ecco perché penso, ostinatamente, che il nostro ospedale sia un segno di speranza per questa gente. Non ci sarà tutto, ma facciamo il possibile. Anzi, l’impossibile.

Quello che mi muove, che ci muove, è la carità verso l’altro, verso tutti. Nessuno escluso.

Gesù ci ha detto di essere presenti nel più piccolo e nel più diseredato.

Questo è quello che facciamo, ogni giorno.


Fratel Beppe Gaido


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