sabato 2 aprile 2016

Chiodo endomidollare di tibia

Tra tutte le altre imprese chirurgiche di oggi, quella che è risultata più difficile è stata una frattura comminuta di tibia e fibula.
Mi ritrovo sempre in crisi con queste fratture, che sono difficilissime da trattare chirurgicamente: se scegli la placca, molto spesso capita che l'edema della frattura poi crei tensione sulla cute e sui punti. 
E' quindi frequente, verso l'ottava-decima giornata post-operatoria, avere la brutta complicazione della necrosi cutanea con esposizione della placca; questo porta poi inevitabilmente ad osteomielite e difficilissime scelte terapeutiche di salvataggio (fissatori esterni, lembi cutaneo-muscolari), al fine di tentare di ricoprire l'osso esposto. Ma l'esito di questi tentativi è in genere molto scoraggiante.
Oggi abbiamo quindi scelto di evitare la placca.
Non si trattava di una frattura esposta e quindi abbiamo accantonato anche l'idea del fissatore esterno, sempre problematico da gestire sia per noi che per il paziente dimesso.


Abbiamo scelto l'inserimento del chiodo endomidollare.
Per questo intervento ho chiamato ad aiutarmi la dottoressa Makandi di Meru, perchè ancora non mi sento del tutto sicuro.
Per il femore non ho problemi ad inserire chiodi endomidollari, ma per la tibia mi è ancora abbastanza difficile, soprattutto per l'assemblaggio dello strumento introduttivo.
La presenza di molti frammenti ossei ha reso la procedura abbastanza complessa e lunga. Alla fine però ci siamo riusciti, con grande soddisfazione da parte nostra e con indubbio beneficio per il paziente.
Ormai l'ortopedia e la traumatologia sono per noi all'ordine del giorno.
Noi cerchiamo di continuare ad imparare sempre, e ad allargare lo spettro delle nostre prestazioni per i pazienti.

Fr Beppe Gaido


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Chaaria è un sogno da realizzare giorno per giorno.

Un luogo in cui vorrei che tutti i poveri e gli ammalati venissero accolti e curati.

Vorrei poter fare di più per questa gente, che non ha nulla e soffre per malattie facilmente curabili, se solo ci fossero i mezzi.

Vorrei smetterla di dire “vai altrove, perché non possiamo curarti”.

Anche perché andare altrove, qui, vuol dire aggiungere altra fatica, altro sudore, altro dolore, per uomini, donne e bambini che hanno già camminato per giorni interi.

E poi, andare dove?

Gli ospedali pubblici hanno poche medicine, quelli privati sono troppo costosi.

Ecco perché penso, ostinatamente, che il nostro ospedale sia un segno di speranza per questa gente. Non ci sarà tutto, ma facciamo il possibile. Anzi, l’impossibile.

Quello che mi muove, che ci muove, è la carità verso l’altro, verso tutti. Nessuno escluso.

Gesù ci ha detto di essere presenti nel più piccolo e nel più diseredato.

Questo è quello che facciamo, ogni giorno.


Fratel Beppe Gaido


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