domenica 8 maggio 2016

I miracoli della chirurgia tropicale

Ann ha 32 anni e si presenta in ospedale con una grossa tumefazione della loggia renale sinistra. E’ in preda ad una terribile sofferenza.
Sembra un dolore della fossa iliaca sinistra più che della massa che le sporge dalla schiena: infatti cammina piegata a novanta gradi perchè la posizione eretta per lei è troppo dolorosa.
E’ così sofferente che le scappano parole forti, come per esempio: “sto morendo! Questa volta proprio non ce la faccio!”
Se il male non fosse dal lato sinistro, con irradiazione alla gamba sinistra, direi che la sintomatologia potrebbe farmi pensare ad un ascesso peri-appendicolare.
Faccio l’ecografia sulla massa del fianco e mi rendo conto che è liquida, seppur contenente un materiale denso che potrebbe essere sangue o pus.
Penso immediatamente ad un ascesso dello psoas, che da noi non è così raro.
La posizione antalgica con cui la paziente cammina è possibilmente dovuta all’irritazione dei muscoli della parete addominale.
Con una siringa faccio un prelievo diagnostico che conferma la natura liquida della massa.
Quello che aspiro lo mando immediatamente in laboratorio, al fine di ottenere un’accurata diagnosi differenziale con la tubercolosi della colonna con ascesso ossifluente, che è anch’essa frequente nella nostra casistica. Il pus che ho ottenuto sembra comunque quello classico che i vecchi libri di patologia generale chiamavano “bonum et laudabile”...onestamente non credo che sia TBC.



Procediamo quindi alla terapia chirurgica.
Con paziente messa sul fianco ed anestetizzata con ketamina, incidiamo orizzontalmente la massa in una piega della cute e ne otteniamo una quantità industriale di pus, che raccogliamo in varie arcelle.
Con un dito eliminiamo tutte le sepimentazioni interne e ci rendiamo conto che la raccolta, assolutamente extraperitoneale, cola comunque fino alla fossa iliaca sinistra, in un tragitto formatosi davanti all’ala iliaca.
Disinfettiamo l’interno della cavità sia con acqua ossigenata che con betadine, e poi zaffiamo abbondantemente con garze, evitando la sutura.
La cosa migliore per queste patologia infettive tropicali è infatti una guarigione per seconda intenzione e collabimento della cavità interna. Suturare la cute creerebbe un vuoto all’interno, e questo predisporrebbe ad una nuova ricrescita di germi, anche anaerobi, con possibile recidiva.
Due giorni dopo la procedura chirurgica, la medicazione non dà più molto pus,  e soprattutto la paziente appare vispa ed arzilla. Non dice più che si sente morire, ma ripetutamente chiede di essere dimessa e di essere medicata in un dispensario vicino a casa. Naturalmente è coperta da una robusta terapia antibiotica che sta contribuendo alla sua guarigione.
Sono davvero i miracoli della chirurgia tropicale; sono quei momenti in cui ti senti di aver fatto qualcosa di importante per una persona: era arrivata a Chaaria pensandosi vicina alla morte, ed ora è felice e chiede di tornare a casa per prendersi cura dei propri bambini.

PS: nella foto mi vedete con il Dr Filippo Gallo (Ginecologo) e con Carmen, sua moglie. Paolino , il loro anestesista, era già in macchina per la partenza.
Sono tornati in Italia ieri dopo un periodo di intenso servizio ai nostri ammalati ed ai Buoni Figli.
Essi appartengono al CCM (comitato Collaborazione Medica) di Torino.
Li ringraziamo sinceramente per tutto quello che hanno fatto a Chaaria.


Fr Beppe Gaido


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Chaaria è un sogno da realizzare giorno per giorno.

Un luogo in cui vorrei che tutti i poveri e gli ammalati venissero accolti e curati.

Vorrei poter fare di più per questa gente, che non ha nulla e soffre per malattie facilmente curabili, se solo ci fossero i mezzi.

Vorrei smetterla di dire “vai altrove, perché non possiamo curarti”.

Anche perché andare altrove, qui, vuol dire aggiungere altra fatica, altro sudore, altro dolore, per uomini, donne e bambini che hanno già camminato per giorni interi.

E poi, andare dove?

Gli ospedali pubblici hanno poche medicine, quelli privati sono troppo costosi.

Ecco perché penso, ostinatamente, che il nostro ospedale sia un segno di speranza per questa gente. Non ci sarà tutto, ma facciamo il possibile. Anzi, l’impossibile.

Quello che mi muove, che ci muove, è la carità verso l’altro, verso tutti. Nessuno escluso.

Gesù ci ha detto di essere presenti nel più piccolo e nel più diseredato.

Questo è quello che facciamo, ogni giorno.


Fratel Beppe Gaido


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