domenica 17 luglio 2016

Podalico in primipara

“Corri subito in sala parto perchè abbiamo un podalico in primigravida”.
Siccome sto finendo una tiroidectomia, dico alle infermiere di iniziare a preparere il cesareo, che è d’obbigo in questi casi.
L’infermiera però mi dice: lascia che il chirurgo volontario vada avanti da solo con la tiroide e tu corri in maternità perchè è urgente.
Capisco a questo punto che qualcosa non va.
Mi “slavo” immediatamente con il benestare di Massimiliano e vado a vedere di cosa si tratta. Vedo una mamma in preda alle contrazioni da parto.
Le gambe del nascituro sono già uscite dal canale del parto e il sederino del piccolo fa capolino al perineo materno.
Comprendo ora perchè mi volevano con urgenza: il podalico in primipara è una controindicazione al parto naturale, ma il cesareo in queste condizioni è assolutamente impossibile.
Come spesso capita a Chaaria, si tratta di un caso estremo, in cui è difficile applicare i protocolli ed in cui bisogna assumersi grandi responsabilità personali.




Mi chiedo come mai abbiamo potuto permettere che una primipara arrivasse ad una dilatazione completa senza che nessuno mi avvisasse...le donne con feto podalico non le lasciamo travagliare nel nostro ospedale, a meno che siano multipare.

Le infermiere leggono nei miei occhio queste domande inespresse ed immediatamente si giustificano:  “è arrivata adesso da fuori quando era già in queste condizioni. Quando l’abbiamo visitata, i piedini erano già fuori. Siamo venuti a chiamarti, ma lei ha continuato a spingere violentemente”.
Mi rassegno all’idea di provare con un parto podalico in primipara.
Ne conosco le complicazioni, soprattutto per essermici trovato molte volte in questi anni.
So che il bambino può restare inchiodato con la testa dentro e che posso rischiare di perderlo mentre è ancora per metà nel corpo della madre.
Allo stesso tempo sono cosciente che il parto naturale è l’unica opzione possibile per lei.
Non riuscirei infatti a tirare su il feto e ad estrarlo per via addominale con cesareo.
Sono momenti tremendi. La responsabilità mi pesa molto. Comunque decido di procedere con il parto podalico assistito: non ci sarebbe neppure il tempo di andare in sala!
La mamma non collabora e non sta ferma. Assisterla è davvero difficile e crea tensione.
Pian piano riesco a estrarre il corpo del piccolo, ma già partorire le spalle è un grosso problema.
Le cerco con un dito per arpionarle e portarele fuori ma non le trovo.
Passano secondi eterni. Mi tremano le gambe.
Poi alla fine ci riesco e le spalle vengono alla luce.
Eseguo con calma le manovre per far partorire la testa, ma, come temevo, quest’ultima non passa e si blocca al perineo.
Mi maledico per aver fatto la scelta sbagliata, e penso di essere di fronte all’ennesimo caso di testa inchiodata dentro, con feto già partorito per metà che mi muore di asfissia tra le mani perchè non riesco ad estrarlo.
Continuo comunque a tirare. Sono disperato ma concentrato ed abbastanza calmo. Eseguo le manovre necessarie, come descritto nei libri di testo.
Poi alla fine la testa esce di botto, come se avesse superato un ostacolo quasi insormontabile.
La mamma ha una lacerazione perineale, ma al momento lei non mi preoccupa.
Il problema più grande è che il piccolo non respira affatto.
Tagliato velocemente il cordone ombelicale, mi appresto alla rianimazione: massaggio cardiaco, ventilazione con ambu, aspirazione del meconio.
All’inizio pare tutto inutile, ma poi appaiono i primi tentativi di repirazione autonoma.
Mi rinfranco e continuo con le manovre rianimative.
Il respiro si fa via via più regolare ed alla fine arriva un pianto vigoroso.
Il bambino ce l’ha fatta.
Tiro un sospiro di sollievo e la mia adrenalina crolla. All’improvviso mi sento spossato.
Alla fin della fiera ho quindi preso la decisione corretta.
Anche la mamma ora è serena e non oppone resitenza alla sutura delle lacerazioni perineali causate dal parto podalico.
E’ stato uno stress incredibile, ma stavolta almeno è andato tutto per il meglio.

Fr. Beppe Gaido

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Chaaria è un sogno da realizzare giorno per giorno.

Un luogo in cui vorrei che tutti i poveri e gli ammalati venissero accolti e curati.

Vorrei poter fare di più per questa gente, che non ha nulla e soffre per malattie facilmente curabili, se solo ci fossero i mezzi.

Vorrei smetterla di dire “vai altrove, perché non possiamo curarti”.

Anche perché andare altrove, qui, vuol dire aggiungere altra fatica, altro sudore, altro dolore, per uomini, donne e bambini che hanno già camminato per giorni interi.

E poi, andare dove?

Gli ospedali pubblici hanno poche medicine, quelli privati sono troppo costosi.

Ecco perché penso, ostinatamente, che il nostro ospedale sia un segno di speranza per questa gente. Non ci sarà tutto, ma facciamo il possibile. Anzi, l’impossibile.

Quello che mi muove, che ci muove, è la carità verso l’altro, verso tutti. Nessuno escluso.

Gesù ci ha detto di essere presenti nel più piccolo e nel più diseredato.

Questo è quello che facciamo, ogni giorno.


Fratel Beppe Gaido


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