domenica 4 giugno 2017

Panga

C’è un vocabolo che è diventato per me un incubo, fino a entrare nei miei sogni come una minaccia: “panga”, in kswahili, gipanga in kimeru.
Corrisponde al termine “machete”, divenuto tristemente famoso per essere stato usato in modo massiccio come arma di sterminio durante il genocidio del Rwanda nel 1994. E’ un vocabolo che non riesco a non associare a una sensazione di dolore. 
Mi ricorda troppe storie di violenze, di aggressioni, di crudeltà che confluiscono, quasi ogni
giorno a Chaaria, nei loro drammatici epiloghi.
La panga, o machete, è un misto tra accetta e coltellaccio, pesante come un’ascia, tagliente come un pugnale, assomiglia vagamente ad una scimitarra. 
Dovrebbe essere uno strumento di vita, serve un po’ per tutto: tagliare il legname per il fuoco della cucina, rigirare le zolle di terra prima di seminare, scavare nel fango, quando ci s’impantana con la macchina nella stagione delle piogge. 
Invece la panga è diventata sempre di più uno strumento di morte, un’arma molto pericolosa, alla portata di tutti perché costa pochissimo, quanto una bottiglia di birra.
Solo negli ultimi anni a Chaaria sono comparse armi da fuoco, e con esse i primi morti e feriti da pallottola. Il machete rimane lo strumento offensivo più usato. 
Quante volte ho dovuto completare amputazioni da panga: sovente si trattava di liti familiari, legate a un pezzo di terra che per gli Africani è, in pari tempo, una maledizione e una benedizione. 
Mi è anche accaduto di assistere a punizioni esemplari in cui un padre ha avuto il coraggio di amputare il braccio destro a un figlio, accusato di avergli rubato una mucca.


Durante le violenze post elettorali del 2007, era il machete l’arma più usata per ferire e uccidere. In quel periodo tanto triste, quando mi avventuravo per strada e incontravo gente che ritornava dai campi, munita di panga, provavo istintivamente un moto di paura. Così tanto, nel mio immaginario, questo strumento è legato a scene terribili.
Le donne sono le vittime più frequenti. Ne ho suturate moltissime che erano state fatte a pezzi dal marito e ogni volta, mi sono chiesto come poteva scatenarsi tanta violenza nei confronti di una persona che ti vive accanto, che ti vuole bene , si occupa di te, è madre dei tuoi figli.
Ieri, ad esempio, è arrivata su una barella Ann, tutta imbrattata di sangue e di terra, forse era caduta più volte, tentando di fuggire dalla furia omicida del marito. Nessuna parte del suo corpo era stata risparmiata dai colpi di machete. 
Nemmeno gli animali infieriscono così a lungo sulla preda. Sulla testa sei ferite, tutte molto
profonde. Attraverso la rima del taglio s’intravvedeva la teca cranica, anch’essa trapassata da quell’accetta omicida. 
Un fendente l’aveva colpita alla base del cranio, e denudato i muscoli del collo, sfigurandole tutto il volto. Ma tanto strazio risultava sconvolgente negli arti superiori. 
Il machete aveva tranciato quasi completamente il braccio destro, poco sopra il polso. 
La mano penzolava, con nervi, tendini e vasi sanguigni al vento, come fili elettrici di un impianto selvaggiamente danneggiato da un vandalo.
Il braccio sinistro, circa nella stessa situazione: la mano penzolava in una posizione grottesca, con tutti i tendini tagliati e lacerati in malo modo. Fuori, in barella, c’era una vicina di casa che si era presa un colpo di machete sulla mano per avere tentato di fermare la follia di quel marito. 
Abbiamo lavorato senza interruzione per più di sei ore per riuscire a sistemare, come potevamo, le innumerevoli ferite e le complesse fratture.
Questa terribile scena mi ha ricordato altre donne finite in situazioni simili, Kawira quasi uccisa e decapitata da un datore di lavoro pazzo. Margaret con il viso spappolato dal marito, infuriato perché sospettava che lo tradisse. 
Mwendwa, anch’essa “machetata “ dal marito che l’ha colpita con la panga sulla guancia sinistra e poi sull’avambraccio destro, infine su quello sinistro. La panga era così tagliente e pesante che ha completamente amputato quest’ultimo.
E’stata portata in ospedale con le ossa esposte, non si sa dove era finita la mano. Siamo riusciti a salvarla, ma abbiamo dovuto programmare un’amputazione definitiva. 
E’ rimasta con una mano sola, ma anche lei, come quasi tutte le donne, vittime di violenza domestica, è ritornata a casa dal suo carnefice.
La galleria degli uomini , feriti gravemente dal machete per litigi o aggressioni, è anch’essa affollata. Il vecchio Kaburu viveva da solo in una capanna isolata. I ladri sono arrivati di notte e l’hanno colpito all’impazzata con la panga fino a farlo a fettine, anche quando era a terra privo di sensi. 
Tutto il corpo è stato martoriato, compresi i piedi. Nessuno ha sentito le sue urla. 
Quando ha ripreso un po’ di forza è riuscito ad attraversare il suo campo, strisciando e a raggiungere i vicini che lo hanno carico su un carretto, trainato da una mucca, e portato in ospedale. 
La sutura di tutte le ferite è stata lunghissima, un bel lavoro di èquipe, ciascuno di noi cuciva parti diverse del corpo.
Riportato nel letto, Kaburu, che per fortuna non sentiva dolore, grazie ai forti antidolorifici, ci ha regalato un sorriso così carico di riconoscenza che ci ha riempito il cuore e ripagato per la lunga fatica. A me però è rimasta la domanda, che ogni volta mi tormenta: perché tanta cattiveria? Perché infierire con tanta ferocia su un anziano inerme? Come facevano i ladri a sapere che lui viveva solo?
Forse sono persone del suo stesso villaggio e magari anche suoi vicini. Sono molto turbato. Penso ai tanti amici che vivono da soli in casette di legno nella boscaglia e sono esposti ad aggressioni.
Tutto questo mi crea una profonda angoscia. Non riesco a capire perché l’uomo possa fare tanto male al suo prossimo. Il mistero della malvagità umana mi turba: dopo duemila anni è ancora valido il detto romano “ Homo hominis lupus”. Caino continua a uccidere Abele.
Purtroppo in questo dramma permanente della panga sono coinvolti anche i bambini. Antony, quattordici anni, è stato ricoverato in una pozza di sangue. 
Aveva una ferita sulla parte posteriore del collo, un’altra più grave nella parte volare dell’avambraccio. 
Tutti i tendini flessori erano stati recisi, insieme a buona parte dei muscoli. La sua vicenda rispecchia quella di altri ragazzi che, sin da piccoli, assistono in famiglia a scene di violenza, provocate dall’uso micidiale di questo strumento e ne rimangono influenzati. 
E’ stato lo stesso Antony a raccontarmi che cosa era accaduto, a dir la verità senza troppa emozione, come se fosse un fatto normale.
“Noi ragazzi nella capanna dormiamo per terra sulle stuoie. C’è poco spazio e dobbiamo dividercelo. Mio fratello più piccolo, ha undici anni, si era preso la parte più ampia della stuoia, io mi sono arrabbiato e gli ho dato un ceffone. 
Lui non ha reagito, si è alzato ed è andato via piangendo. Io mi sono girato sul fianco per dormire.
Non mi sono preoccupato, ho pensato “gli passerà e imparerà la lezione”. Invece dopo poco è ritornato con la panga e mi ha colpito con tutta la sua furia.”
Antony arriva da Katwene, un poverissimo villaggio ai confini tra il Tharaka e il Cenral Imenti. Non mi stupisce che i bambini dormano per terra, né che la panga sia facilmente reperibile in ogni casa, è lo strumento agricolo per eccellenza. 
Rimango sgomento, quando penso alla reazione di quel bambino di appena undici anni che l’ha usata per vendicarsi del ceffone ricevuto. 
Avrebbe potuto uccidere suo fratello, se il colpo inflitto al collo non fosse caduto di striscio, oppure lo avrebbe potuto rendere monco per tutta la vita , se il braccio fosse stato completamente amputato.
A Chaaria non mancano neppure le pugnalate: di solito sono usati dei coltelli da cucina o a uso agricolo. La pugnalata è normalmente molto subdola e traditrice: vedi una ferita di due centimetri o poco più.
Pare quasi una cosa da niente, ma la lama è lunga e di solito ha fatto disastri all’interno, anche se l’emorragia esterna è minima.
Qualche volta capita invece di dover assistere persone ferite con arco e freccia: quest’ultimo strumento di morte è molto popolare nel Tharaka, dove a volte la punta è anche avvelenata. Ricordo casi molto brutti e dolorosi come quello di una povera donna alla quale il marito aveva conficcato una freccia nel fondoschiena, mentre lei tentava di fuggire dalla sua violenza.
Nel dispensario cui si era rivolta non erano riusciti a togliergliela perché la manovra le causava troppo dolore. 
Avevano quindi solo spezzato la freccia, lasciando la punta infissa nella carne, ed erano venuti a Chaaria con la paziente sdraiata sulla pancia nel cassone di un pick up. Eravamo subito intervenuti con urgenza perché c’era anche un’imponente emorragia, la freccia era penetrata profondamente, lacerando il retto e squarciando l’utero. Un danno incredibile che ha richiesto ore di lavoro in sala operatoria.
Un’altra donna era arrivata in ospedale con una freccia incuneata nel torace. Anche lei è stata miracolata, perché la freccia era passata tangenzialmente allo sterno, ma non aveva leso il cuore che si trovava a qualche millimetro di distanza.
Panga, coltellate, arco e frecce, costituiscono per noi una fonte costante di emergenze, di complicazioni difficili da gestire, e di tanta preoccupazione. E sofferenza morale. Per la gente sono causa di tanto dolore e di danni, a volte irreparabili e di morte.

Fr Beppe


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Chaaria è un sogno da realizzare giorno per giorno.

Un luogo in cui vorrei che tutti i poveri e gli ammalati venissero accolti e curati.

Vorrei poter fare di più per questa gente, che non ha nulla e soffre per malattie facilmente curabili, se solo ci fossero i mezzi.

Vorrei smetterla di dire “vai altrove, perché non possiamo curarti”.

Anche perché andare altrove, qui, vuol dire aggiungere altra fatica, altro sudore, altro dolore, per uomini, donne e bambini che hanno già camminato per giorni interi.

E poi, andare dove?

Gli ospedali pubblici hanno poche medicine, quelli privati sono troppo costosi.

Ecco perché penso, ostinatamente, che il nostro ospedale sia un segno di speranza per questa gente. Non ci sarà tutto, ma facciamo il possibile. Anzi, l’impossibile.

Quello che mi muove, che ci muove, è la carità verso l’altro, verso tutti. Nessuno escluso.

Gesù ci ha detto di essere presenti nel più piccolo e nel più diseredato.

Questo è quello che facciamo, ogni giorno.


Fratel Beppe Gaido


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