lunedì 14 agosto 2017

La volpe e l'uva

Credo che tutti abbiamo letto alle elementari la fiaba di Esopo della volpe e dell’uva. Qualcuno come il sottoscritto se l’è ritrovata anche in greco al liceo.

Mi è venuta in mente in questi giorni perchè l’ho trovata riproposta in Inglese su un quotidiano locale alla pagina dei bambini.
La trovo sempre una favola molto vera ed altrettanto amara.
Onestamente la penso una fiaba per adulti, una fiaba che coglie uno degli angoli più bui del cuore umano!
Quante volte infatti gli esseri umani fanno come la volpe quando non riescono a raggiungere un obiettivo che si eravamo prefissi. Tanto per non ammettere la sconfitta, essi ripetono a se stessi che quella “cosa” a cui aspiravamo, non aveva poi tutto quel valore. Disprezzando l’obiettivo fallito, l’uomo in genere cerca di evitare il senso della sconfitta e la presa di coscienza della propria incapacità e del proprio limite.
Ma la cosa forse più triste è che la fiaba di Esopo tratteggia atteggiamenti molto comuni anche nei nostri rapporti con il prossimo.
Troppo spesso i nostri rapporti sono di tipo competitivo con le persone che ci stanno al fianco. Ho sempre creduto che l’emulazione tante volte proposta anche dagli insegnanti sin dalle scuole elementari sia in sè un atteggiamento pericoloso, perchè il confine tra emulazione e competizione è sovente impercettibile, e facilmente si può scivolare anche nell’invidia.


Consciamente od inconsciamente, noi vogliamo essere sempre i primi della classe (perchè ce lo hanno inculcato fin dal primo giorno di scuola)... e se qualcuno è più bravo di noi, immediatamente cerchiamo di competere con lui (magari senza ammetterlo neppure a noi stessi).
Ammetto che una giusta emulazione può essere salutare, ma sono anche convinto che le nostre competizioni spesso non sono di quel tipo; esse sono vere e proprie gare per primeggiare. 
Accusiamo gli altri di essere primedonne, ma in fondo questa accusa verso gli altri è la proiezione freudiana di un nostro spasmodico desiderio di primeggiare.
Per arrivare al primo posto siamo spesso capaci anche di dare gomitate e colpi sotto la cintura (per usare un termine pugilistico), senza contare che qualche volta sappiamo fare anche di peggio: quando per esempio godiamo del fallimento altrui, deridiamo e sminuiamo i suoi successi, o mettiamo una parola cattiva tanto per rovinargli la festa.
In quei momenti ci comportiamo proprio come la volpe, quando dice che l’uva era acerba.
Talvolta poi succede di trovare qualcuno effettivamente più bravo di noi: allora cerchiamo di competere con lui in tutti i modi, sia leali che sleali (naturalmente senza mai ammetterlo neppure a noi stessi), ma lui è comunque migliore di noi e veramente non ce la facciamo ad
eguagliarlo od a superarlo. 
Ecco quindi che smascheriamo l’ultima arma, quella della volpe che definisce acida l’uva che non riusciva a raggiungere: parliamo male di quella persona, diciamo che, dopo tutto, lui non è poi quello che sembra e che ci sono tante cose negative in lui, ecc, ecc.
Ecco perchè la favola di Esopo è tristemente una storia per adulti, valida a Chaaria ed a tutte le latidudini.
Oggi la propongo ai lettori per ridire a me stesso che devo essere capace di accettare di non essere il primo, e che devo sinceramente apprezzare i successi di coloro che sono più bravi di me.
C’è una esortazione di San Paolo che suona più o meno così: “gioite con chi gioisce e piangete con chi piange”. Da giovane pensavo che la cosa più difficile fosse di soffrire con chi soffre, ma ora che ho superato la cinquantina mi rendo conto che è molto più duro essere felice quando gli altri sono felici ed hanno più successo di noi.

Fr Beppe



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Chaaria è un sogno da realizzare giorno per giorno.

Un luogo in cui vorrei che tutti i poveri e gli ammalati venissero accolti e curati.

Vorrei poter fare di più per questa gente, che non ha nulla e soffre per malattie facilmente curabili, se solo ci fossero i mezzi.

Vorrei smetterla di dire “vai altrove, perché non possiamo curarti”.

Anche perché andare altrove, qui, vuol dire aggiungere altra fatica, altro sudore, altro dolore, per uomini, donne e bambini che hanno già camminato per giorni interi.

E poi, andare dove?

Gli ospedali pubblici hanno poche medicine, quelli privati sono troppo costosi.

Ecco perché penso, ostinatamente, che il nostro ospedale sia un segno di speranza per questa gente. Non ci sarà tutto, ma facciamo il possibile. Anzi, l’impossibile.

Quello che mi muove, che ci muove, è la carità verso l’altro, verso tutti. Nessuno escluso.

Gesù ci ha detto di essere presenti nel più piccolo e nel più diseredato.

Questo è quello che facciamo, ogni giorno.


Fratel Beppe Gaido


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