giovedì 6 dicembre 2018

Poteva finire molto peggio

Domenica mattina alle otto l’ospedale e’ gia’ percorso da una grave agitazione. Un gruppo concitato di persone si affanna attorno alla barella di room 9. Mi avvicino e scorgo un giovane su una barella. 
Ha una ferita al di sopra del capezzolo destro: si tratta di un taglio molto corto, ed intuisco che si tratta di una coltellata.
“Cosa e’ successo?”, chiedo senza rivolgermi ad alcuno in particolare.
“E’ stato un banale alterco a scuola tra studenti. Hanno litigato sul turno per lavare i piatti”, mi risponde una giovane donna... forse una delle insegnanti.
“Incredibile... avrebbe potuto essere un omicidio, causato da una stupidaggine”, penso ad alta voce.
Il paziente quindicenne e’ di un villaggio molto vicino a Chaaria, dove normalmente il nostro Fratel Giovanni Bosco si recava alla domenica pomeriggio per le sue passeggiate con i bambini: non stupisce quindi che si chiami John Bosco.
Lo portiamo in sala accompagnati fin sulla porta da un padre stanco ed ansioso.


L’assenza di Jesse mi obbliga a lavorare in anestesia locale. Il ragazzo e’ poco collaborante e facciamo un po’ di fatica.
Pero’ siamo fortunati: prima di tutto l’auscultazione del torace nei pressi della coltellata ci fa ben sperare perche’ i suoni polmonari sono ben udibili. Poi, facendo una revisione profonda della ferita, ci rendiamo conto che il pugnale deve essere rimbalzato su una costa ed essersi quindi direzionato in linea parallela al piano cutaneo, andando a finire nel muscolo pettorale.
Suturiamo quindi i vari strati con animo piu’ sollevato.
All’uscita dalla sala rassicuriamo il papa’, e gli diciamo che scioglieremo la prognosi l’indomani, dopo che il ragazzo sara’ stato portato a Meru per una lastra del torace di conferma.
Ora quel genitore e’ piu’ sereno, ma assolutamente determinato a portare l’aggressore in corte.
“Tutto e’ bene quello che finisce bene!”

Fr Beppe


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Chaaria è un sogno da realizzare giorno per giorno.

Un luogo in cui vorrei che tutti i poveri e gli ammalati venissero accolti e curati.

Vorrei poter fare di più per questa gente, che non ha nulla e soffre per malattie facilmente curabili, se solo ci fossero i mezzi.

Vorrei smetterla di dire “vai altrove, perché non possiamo curarti”.

Anche perché andare altrove, qui, vuol dire aggiungere altra fatica, altro sudore, altro dolore, per uomini, donne e bambini che hanno già camminato per giorni interi.

E poi, andare dove?

Gli ospedali pubblici hanno poche medicine, quelli privati sono troppo costosi.

Ecco perché penso, ostinatamente, che il nostro ospedale sia un segno di speranza per questa gente. Non ci sarà tutto, ma facciamo il possibile. Anzi, l’impossibile.

Quello che mi muove, che ci muove, è la carità verso l’altro, verso tutti. Nessuno escluso.

Gesù ci ha detto di essere presenti nel più piccolo e nel più diseredato.

Questo è quello che facciamo, ogni giorno.


Fratel Beppe Gaido


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