domenica 3 febbraio 2019

Dare il massimo

Non mi sembra di esagerare se dico che l’attività in ospedale e’ cosi’ intensa che a volte toglie il respiro: si inizia prestissimo e si finisce veramente tardi.
Difficilissimo è bilanciare tra attività chirurgica, ambulatorio e problematiche di reparto.
Mi viene sempre in mente il paragone della cavalletta; sì, mi sento proprio come una cavalletta. 
La giornata è un continuo saltare dal tavolo operatorio, al gastroscopio, al reparto, all'ascolto di un malato che ti espone i suoi mali, alla sala parto dove qualche mamma ha problemi a partorire. 
Salti e cerchi di dare sempre il meglio di te, anche quando sei sfinito.
Le pause pranzo sono brevissime e poi si deve ritornare nella bolgia, per tentare di finire la coda dei malati entro sera.
Purtroppo finora ho sempre lavorato in "overbooking": ho così tanti pazienti ricoverati per intervento che non ce la faccio a smaltire la lista di attesa...alcuni attendono vari giorni prima di entrare in sala.


Faccio sempre delle liste operatorie generose ed ottimiste, sperando riuscire a finirle; ma poi capita sovente l'emergenza o l'intervento complicato che dura più del previsto, e quindi qualcuno della lista salta all'indomani.
Posticipare un'operazione è per me una sconfitta e per il malato una bruttissima notizia, visto che è rimasto digiuno tutto il giorno e pieno di tensione e paura.
A poco valgono per consolarlo le mie rassicurazioni che sarà il primo nella lista del giorno seguente: tutti a Chaaria sanno che basta un'emergenza e primo della lista non lo sei già più.
Indubbiamente mi sembra di fare tanto, sia in ambulatorio, che in reparto, come anche in sala: alla sera sempre riesco sempre a vedere tutti i pazienti ambulatoriali, ma quello che ricevo in cambio non è il grazie per il sacrificio che ho fatto nel visitarli anche se ero stremato e se era ormai tardissimo; al contrario, mi devo sorbire lamentazioni da parte dei pazienti che dicono di aver aspettato sin dal mattino.
In sala mediamente facciamo 12 o 13 operazioni, ma chi è operato ha troppo male per dirti grazie: sono molto rumorosi invece quelli che non sono ancora entrati nella lista operatoria e si lamentano di aver aspettato alcuni giorni in ospedale.
A rendere più difficile la situazione ci si mettono anche alcuni pazienti che non stanno andando troppo bene nel decorso post-operatorio.
Queste complicazioni mi deprimono e stendono un alone di depressione sulla mie giornate già così farraginose e faticose.
Questa sera sono particolarmente stanco ed ho la testa davvero ridotta a mozzarella: ho fatto il giro del dopo-cena come un automa, sperando di finire al più presto ed andare a letto.
Ad un certo punto mi ha chiamato un paziente di recente gastrectomizzato.
Mi è venuto un colpo: "avrà complicazioni anche lui? Cosa sarà successo?"
Mi avvicino titubante a chiedere quale fosse il problema: temevo una deiscenza della ferita o cose del genere.
Invece lui candidamente mi ha chiesto: "dopo quanto tempo potrò nuovamente espletare i miei doveri coniugali con mia moglie?"
A questa domanda, stanco come ero, non sapevo se mettermi a ridere a crepapelle o ad urlare di rabbia. Mi sono comunque trattenuto, felice soprattutto che non ci siano complicazioni post-operatorie (almeno finora).
Gli ho messo una mano sulla spalla e gli ho semplicemente detto: "pensa solo a guarire. I tuoi doveri coniugali li potrai espletare presto, e molto presto"

Fr Beppe Gaido


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Chaaria è un sogno da realizzare giorno per giorno.

Un luogo in cui vorrei che tutti i poveri e gli ammalati venissero accolti e curati.

Vorrei poter fare di più per questa gente, che non ha nulla e soffre per malattie facilmente curabili, se solo ci fossero i mezzi.

Vorrei smetterla di dire “vai altrove, perché non possiamo curarti”.

Anche perché andare altrove, qui, vuol dire aggiungere altra fatica, altro sudore, altro dolore, per uomini, donne e bambini che hanno già camminato per giorni interi.

E poi, andare dove?

Gli ospedali pubblici hanno poche medicine, quelli privati sono troppo costosi.

Ecco perché penso, ostinatamente, che il nostro ospedale sia un segno di speranza per questa gente. Non ci sarà tutto, ma facciamo il possibile. Anzi, l’impossibile.

Quello che mi muove, che ci muove, è la carità verso l’altro, verso tutti. Nessuno escluso.

Gesù ci ha detto di essere presenti nel più piccolo e nel più diseredato.

Questo è quello che facciamo, ogni giorno.


Fratel Beppe Gaido


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