Ricordo il giorno in cui ho dovuto prendere la macchina ed accompagnare a casa i resti di una persona morta parecchi giorni prima nel nostro ospedale. Era tanto che non facevo più questo servizio. Da tempo mi sono convinto che non possiamo permettercelo perché le strade sono pessime, le nostre automobili vecchie e le forze inevitabilmente misurate. Sempre, inoltre, dobbiamo fare i conti con le non indifferenti spese di carburante.
Ma la situazione quel giorno era diversa: si trattava di un uomo morto da più di 10 giorni, e collocato in cella frigorifera nel nostro obitorio. Già stavo pensando di seppellirlo nel cimitero interno dell’ospedale, ma ero stato dissuaso dal “Public Health Technician” che mi aveva detto che per legge dovevo aspettare fino a 15 giorni.
Poi, con mia sorpresa, due giorni piu’ tardi era arrivata una bambina di non più di 14 anni. Era impaurita ed evidentemente poverissima: cercava suo papà e nessuno dello staff aveva il coraggio di dirle che il suo babbo non c’era più. Ancora una volta era toccata a me. Era stato uno di quei momenti terribili, in cui dici a te stesso che davvero fare il medico è spesso molto amaro. La piccola parlava un Kiswahili stentato ma mi capiva a sufficienza. Ero partito da lontano e le avevo detto che suo papà era stato molto male, e per tanti giorni, senza vedere nessuno dei familiari. Le avevo quindi chiesto: “come mai la mamma non è mai venuta a visitarlo? Ha altri bambini piccoli da accudire?”
Erano seguiti interminabili momenti di silenzio in cui la piccola guardava nel vuoto e non rispondeva.
Al che, da buon Occidentale senza pazienza, io le avevo dato la notizia in modo abbastanza brusco e sbrigativo perché sentivo già una tensione interiore crescermi dentro pensando alla coda di pazienti che ancora aspettavano fuori.
La bimba non aveva pianto e mi aveva detto che sarebbe tornata “kesho kutwa” (dopo due giorni). Ricordo che cercai di recuperare e di essere molto tenero nella continuazione del discorso, ma ormai lei voleva andare via. Le avevo quindi domandato se voleva vedere il suo papà nella camera mortuaria, ma lei aveva detto di no con un evidente gesto di paura. Era quindi partita, promettendomi di tornare come stabilito.
Ed infatti poi successe proprio così, ma invece di veder arrivare un “Land Rover” scassato e pieno di parenti in lacrime, rividi la stessa bambina, che era tornata a piedi e senza alcun mezzo per il trasporto del cadavere… non parliamo neppure di soldi. Anche i vestiti erano quelli che aveva addosso durante il nostro primo incontro.
Rammento che ancora una volta avevo permesso al mio congenito razzismo di avere la meglio per un attimo, ed avevo detto allo staff: “questo è il solito trucco. Mandano una bambina senza soldi, così lo “ Mzungu” (uomo bianco) porta a casa il cadavere gratuitamente”.
Era l’una del pomeriggio – lo ricordo come se fosse ieri - e la situazione in ospedale sembrava abbastanza tranquilla. Il Dr Ogembo era presente ed in caso di cesareo urgente avrebbe potuto intervenire lui. Presi la decisione in un attimo: “Vado io a portare il morto a casa, così posso anche dire la mia a questi adulti irresponsabili che cercano di fregarci anche nel momento drammatico della dipartita di un congiunto”.
Presi la macchina più vecchia (la spugna come era ormai conosciuta anche da tutti i volontari), caricai il corpo di quel papà e poi feci salire al mio fianco la piccola Kendi, che era molto timida ed allo stesso tempo aveva una gran paura a stare nella stessa auto dove era collocato il defunto.
Dopo lunghe trattative con la piccolina che voleva tornare a piedi, ci avviammo insieme verso Gachua (a circa 14 km). Per convincerla a salire, le avevo dovuto dire che non conoscevo la strada e che non sarei mai arrivato a casa sua da solo. In macchina le chiesi del funerale: lei diceva che sarebbe stato officiato da un catechista perché nessun prete era disponibile. Le domandai, quindi, se nella sua famiglia erano cattolici: lei fece un segno di assenso con il capo. Guidavo lentamente tra le buche e non sapevo cosa dire. Provavo molta tenerezza per quella bimba malvestita ed impolverata. Tra l’altro nella furia di scoprire l’inganno degli adulti che non si erano presentati, non le avevo neppure offerto un pezzo di pane o un po’ di “Chai” (the con latte). Le chiesi ad un certo punto se aveva fame, e lei mi aveva detto che non mangiava da più di 24 ore. Inchiodai con la macchina a Giak,i sollevando un’immensa nuvola di polvere rossa, e comprai una confezione di pancarrè ed una bottiglietta di succo d’arancia. Lei accetto’ subito. Strinse il malloppo al petto e non mangio’ nulla.
Quando arrivammo a Gachua le chiesi dove era la sua casa. Lei mi fece entrare in un sentiero sempre più stretto, fino al punto di continuare il viaggio nei campi per almeno qualche chilometro. Mentre andavo su e giù per i dossi, lei sempre mi ripeteva che eravamo arrivati, ma intanto io continuavo a guidare.
A un certo punto mi disse di fermarmi: alla mia destra un tugurio di fango e paglia, un gruppo di bambini più piccoli di lei ed una vecchia quasi cieca seduta sotto una pianta. Le avevo chiesto: “ma dove sono gli altri?” Mi rispose che, a parte i suoi fratellini e la nonna, erano morti quasi tutti. Io, senza rendermi conto che la mia domanda avrebbe aumentato il suo dolore, le chiesi: “e la mamma?” Kendi mi disse che era gravissima all’ospedale distrettuale di Meru, ma che non sapeva ancora che il papà era morto. “Ieri sono andata a Meru a piedi a vedere la mamma e l’ ho rassicurata che il babbo migliora. Allora la mamma mi ha detto di ricordargli di non bere tanto e di iniziare a seminare perché è stagione delle piogge. Ora che lui non c’è più non so chi seminerà”.
La mia confusione era totale e non sapevo cosa dire: ero venuto quasi per riscuotere i soldi che loro non avevano pagato per l’ospedale, ed il Signore mi stava dando un’altra legnata. ..una di quelle che, nella loro umiliazione, solo i poveri ti sanno dare.
Che brutto quando abbiamo dei preconcetti, quando pensiamo di giudicare le intenzioni degli altri, quando crediamo di sapere tutto della situazione del nostro prossimo.
Io, al di là del fatto che nessuno aveva pagato per quel ricovero, non avevo mai saltato un pasto, avevo la corrente elettrica e l’acqua in casa. Pensai con confusione che io potevo usare un’automobile quando ne avevo bisogno, ed avevo internet. Laggiu’ in quella famigia non c’era niente, neanche un gabinetto, e l’acqua bisognava andare a prenderla al fiume.
Che stupido ero stato! Il Signore voleva farmi capire che si può coltivare sentimenti di razzismo anche quando si pensa di donare la propria vita come missionari. Quante volte giudichiamo i poveri e ci sentiamo migliori di loro… e questo non è bello!
Kendi aveva poi preso l’iniziativa perché io ero paralizzato. Mi aveva aiutato a scaricare il cadavere ed a porlo sulla nuda terra vicino alla fossa appena scavata. I bambini non c’erano più. Li aveva mandati via, in una famiglia di vicini a giocare: “ non voglio che si fermino al funerale… sono troppo piccoli. Capiranno più avanti quello che è capitato al papà”.
Intanto arrivava un po’ di gente: si era sistemata in silenzio, seduta sull’erba, aspettando l’inizio della cerimonia. Da ultimo, con il proverbiale ritardo dell’”african time” si era presentato anche il catechista. Non avevo intenzione di fermarmi alla celebrazione: avevo tanto da fare in ospedale. Diedi uno sguardo a quel cadavere avvolto in un lenzuolo, vicino alla fossa in cui sarebbe stato posto. Salutai Kendi e le dissi di essere forte. Senza troppa convinzione aggiunsi: “vedrai che la mamma tornerà presto!”
Recitai una preghiera e “montai” in macchina, mentre ancora il catechista dava ordini su come la celebrazione si sarebbe dovuta svolgere.
Ed ancora oggi penso e ripenso: che botta al cuore. Che lezione di vita da parte di quella poverissima bambina. Immagino che anche sua mamma non ce l’abbia fatta, perché purtroppo so di cosa è morto il marito. Chissà se anche Kendi era stata contagiata dall’ HIV. Forse lei no, perché era troppo grande, ma i piccoli?? Che disastro questa malattia… che mistero la sofferenza dei poveri!”
Anche adesso mi ritorna un’autocritica continua: perché ho giudicato questi poveri senza conoscere? Perché al di là delle apparenze sono ancora razzista? Perché penso sempre che gli altri mi vogliano fregare invece di dar loro fiducia?
Ps MOLTI INCONTRI ANCHE OGGI.
Prima sono stato ad Arese con Max, la sua famiglia e tanti suoi amici. Poi alla sera sono andato a cena con Rossella, sua figlia e genero a Torino. Ringrazio tutti per tanti segni di affetto ed amicizia.
Fr Beppe Gaido
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