Sono le 23.30 del giorno di Natale ed il cicalino suona:
“C’e’ una emergenza! E’ un trasferimento dal Tharaka!”.
E’ difficile coordinare le idee quando si viene svegliati nella prima
mezz’ora di sonno, ma mi precipito in ospedale.
Si tratta di una giovane donna, che appare molto anemica ed ormai in
condizioni generali direi terminali.
Metto insieme le idee e decido prima di tutto di eseguire un’ecografia d’urgenza:
l’eco conferma il mio sospetto diagnostico: si tratta di una gravidanza extrauterina,
ormai rotta, e con enorme emorragia interna.
Non avendo laboratoristi reperibili, sono io a testare velocemente l’emoglobina
(che risulta di 2 g/dl) ed il gruppo sanguigno, che e’ O positivo. Mando il guardiano
a svegliare Jesse, in quanto non posso certo tentare di entrare in sala senza
l’anestesista, date le condizioni critiche della paziente... ed intanto faccio
le prove crociate su sangue che temporaneamente sottraggo ad un’altra ricoverata.
Prepariamo l’operanda per la sala: toglierle i vestiti impolverati,
lavarla, farle la tricotomia, inserire il catetere ed allestire i set
chirurgici non ci richiede piu’ di 15 minuti.
La mamma pero’ continua a peggiorare ed il suo respiro e’ “gasping” anche
prima di incidere la cute. Il monitor ci rivela complessi cardiaci premortali.
Io non vorrei agire, ma Jesse e l’infermiera mi spingono a farlo, dicendomi
che la speranza e’ l’ultima a morire: la paziente non respira, ma siccome c’e’
attivita’ cardiaca, Jesse la intuba, la ventila e le pratica adrenalina.
Velocemente iniziamo l’intervento; in un batter d’occhio siamo nella
cavita’ peritoneale da cui aspiriamo almeno quattro litri di sangue, mentre una
sacca di emazie entra nelle vene della donna al massimo della celerita’
consentita dallo spremisacca regalatomi dagli amici delle Molinette.
Troviamo immediatamente la sede dell’ectopica: clampiamo e suturiamo,
arrestando l’emorragia in pochi minuti.
Dal punto di vista operatorio non ci sono grossi problemi: aspiriamo il
sangue dall’addome; laviamo il peritoneo con fisiologica tiepida, e chiudiamo.
Ma la paziente non riprende una respirazione spontanea e pian piano anche
la traccia del monitor si trasforma dapprima in fibrillazione ventricolare
seguita poi da asistolia. Appena do l’ultimo punto sulla cute, l’ECG si fa
costantemente piatto.
Abbiamo perso la malata in sala.
Siamo tutti imbrattati di sangue che si e’ sparso abbondantemente anche sul
pavimento, e siamo molto depressi.
Ora dobbiamo parlare con il marito e gli altri parenti che sono fuori in
corridoio.
E’ molto dura!
E’ sempre difficile dire ad uno sposo che la giovane consorte non c’e’
piu’!
Ma lui e gli altri congiunti non sono stati affatto rudi con noi.
Erano invece molto arrabbiati con la struttura rurale che aveva accolto la
donna due giorni prima: in quel centro di salute avevano fatto una diagnosi di
malaria, senza neppure un esame microscopico della goccia spessa; avevano
scritto in cartella che la paziente era anemica, senza pero’ testare una
emoglobina.
Ma la cosa che li rendeva tristi ed aggressivi era il fatto che la donna
aveva perso coscienza alle 5 del pomeriggio, e lo staff di quella struttura
aveva perso ore preziose, praticando inutili infusioni di soluzione salina,
senza pensare ad un trasferimento urgente. La decisione di portare la malata a
Chaaria e’ in effetti avvenuta piu’ di cinque ore dopo la perdita di coscienza!
“Se ci avessero detto che avevano problemi con l’auto, saremmo venuti a
Chaaria con il matatu!”
Io non so cosa dire.
Non voglio aumentare la tensione che c’e’ nell’aria, e sprattutto non intendo
incitare animosita’ verso lo staff dell’altra struttura.
Cerco di calmare i parenti affranti, e poi in privato provo a spiegare gli
errori compiuti ad una delle infermiere che aveva accompagnato la malata: c’e’
sicuramente stata una catena di errori che si sono sommati dando origine ad un
circolo vizioso che ha portato all’esito fatale.
Prima di tutto ho consigliato di non ricoverare malati gravi in strutture
dove non c’e un medico o dove le possibilita’ diagnostiche sono scarse: in caso
di dubbio e’ meglio riferire immediatamente ad una unita’ di livello superiore.
Poi ho caldamente suggerito di non considerare automaticamente come malaria
cerebrale una perdita di coscienza inspiegata, soprattutto in una donna giovane:
ho ripetuto il mio assioma secondo cui tutte le donne nel nostro contesto sono
gravide fino a prova contraria, e che una lipotimia e’ un segno importante di
sospetto per una ectopica.
Ho anche consigliato di rimanere molto aperti nelle ipotesi diagnostiche:
la mia impressione e’ che il fatto di pensare inizialmente alla malaria, ha poi
portato ad una interpretazione di tutti i sintomi alla luce di quell’ipotesi,
senza la necessaria coscienza critica che avrebbe potuto portare a considerare
altre cause. E’ come se, il primo giorno, quelle infermiere si fossero messe
degli occhiali, attraverso cui hanno poi distorto il fluire dei sintomi alla
luce dell’interpretazione originaria.
E da ultimo ho ricordato che ogni ritardo nel trasferimento puo’ essere
rapidamente letale per i nostri malati, soprattutto quando si viene da lontano
e la strada e’ accidentata... per cui e’ meglio trasferire con eccessivo
anticipo che tardare!
Credo che queste infermiere, visibilmente afflitte e turbate, abbiano
compreso, e che non ripeteranno certo un tale errore.
Ora devo cercare di rimpiazzare il sangue che ho “preso in prestito
dall’altra paziente” di Chaaria.
Mentre trasportiamo la giovane donna al mortuario, non posso fare a meno di
pensare a quel marito diventato vedovo il giorno di Nalate ed ai suoi bambini
che non rivedranno piu’ la loro mamma. Mi torna in mente il cactus che c’e’
davanti alla cappella della clausura di Tuuru, e mi perdo un attimo a fantasticare
trasognato: per molti la vita e’ proprio come questa pianta grassa; le spine ci
sono sempre e sono molto lunghe, ma i fiori si vedono davvero raramente.
Fr Beppe Gaido
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