martedì 21 ottobre 2014

Alcune peculiarità del nostro lavro chirurgico

1) Capita spesso che i pazienti vengano molto in ritardo, con la conseguenza che l’operazione risulta piu’ complessa del normale.
Pensiamo a fibromi uterini tanto grandi da arrivare alle coste, ad ernie strozzate da due o tre giorni, a cisti ovariche grandi come gravidanze a termine, a tagli cesarei con la testa del feto
incarcerata nel canale del parto da un lunghissimo caput succedaneum, ad aborti incompleti settici, ecc. 
Tale ritardo e’ spesso dovuto alle grandi distanze che separano i villaggi da cui la popolozione proviene ed il nostro ospedale. C’e’ poi anche una certa tendenza fatalistica in molta gente, che tende ad attendere la naturale guarigione dei problemi di salute, sperando eccessivamente nella cosiddetta “vis sanatrix naturae”.

2) La condizione chirurgica e’ poi sovente aggravata da altre condizioni morbose di cui il paziente non era neppure al corrente: e’ frequente il primo riscontro di ipertensione arteriosa in concomitanza di un intervento di idrocele o di ernia; oppure la diagnosi di un diabete mellito, misconosciuto per il passato, il giorno in cui si decide per una isterectomia. Spesso poi ci sono altre condizioni sottostanti, come una infezione HIV che crea un quadro simile ad una malnutrizione avanzata, una malaria od una tubercolosi non ancora diagnosticate, una anemia cronica da splenomegalia, ecc.


3) Abbiamo spesso problemi ad avere una quantita’ sufficiente di sangue, soprattutto per interventi su pazienti gia’ anemici o con possibilita’ di emorragia durante e dopo l’operazione (isterectomie per fibromi, prostatectomie).

A tutto questo aggiungo che lo strumentario e’ quello che e’, e quindi il chirurgo europeo che viene ad aiutarci, incontrerà qualche difficolta’ ad assolvere le proprie incombenze nel nostro ospedale rurale.
Dovra’ assumersi responsabilita’ importanti senza la possibilita’ di conferire e di confrontarsi con un primario o con qualcuno piu’ anziano di lui.

Fr Beppe








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Chaaria è un sogno da realizzare giorno per giorno.

Un luogo in cui vorrei che tutti i poveri e gli ammalati venissero accolti e curati.

Vorrei poter fare di più per questa gente, che non ha nulla e soffre per malattie facilmente curabili, se solo ci fossero i mezzi.

Vorrei smetterla di dire “vai altrove, perché non possiamo curarti”.

Anche perché andare altrove, qui, vuol dire aggiungere altra fatica, altro sudore, altro dolore, per uomini, donne e bambini che hanno già camminato per giorni interi.

E poi, andare dove?

Gli ospedali pubblici hanno poche medicine, quelli privati sono troppo costosi.

Ecco perché penso, ostinatamente, che il nostro ospedale sia un segno di speranza per questa gente. Non ci sarà tutto, ma facciamo il possibile. Anzi, l’impossibile.

Quello che mi muove, che ci muove, è la carità verso l’altro, verso tutti. Nessuno escluso.

Gesù ci ha detto di essere presenti nel più piccolo e nel più diseredato.

Questo è quello che facciamo, ogni giorno.


Fratel Beppe Gaido


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