venerdì 31 ottobre 2014

I primi passi di Chaaria verso l'ospedale

Era il 1998 e da poco avevamo dimesso Karimi ed il suo neonato Pasqualino.
Ci sembrava che avremmo potuto fare molto di più per la nostra gente: il successo appena ottenuto ci aveva galvanizzati ed un servizio puramente ambulatoriale cominciava a starci stretto.
Quel letto volante che avevamo usato per la nostra prima malaria cerebrale era ancora in dispensario, ma non aveva un posto fisso perchè ogni martedì dovevamo usare quella stanza per le vaccinazioni dei bambini, e quindi dovevamo smontarlo.
Abbiamo quindi deciso di collocarlo in modo definitivo nell’angolo vicino al caminetto che ancora oggi è visibile in dispensario e dentro al quale abbiamo ora posto le batterie dei pannelli solari.
E’ comunque rimasto vuoto per poco tempo perchè ci siamo trovati quasi subito davanti ad un’altra emergenza: si trattava di Monica, una povera mamma di Kathwene a cui Fr Maurizio aveva pagato la radioterapia al Kenyatta National Hospital di Nairobi per un carcinoma spinocellulare del cuoio capelluto.
La radioterapia era andata male e la teca cranica si era praticamente liquefatta, lasciando sul capo di  Monica un cratere enorme.
La poveretta veniva a farsi medicare in dispensario.



Kathwene è però lontano, a 12 chilometri da Chaaria, e Monica non poteva venire tutti i giorni; ragion per cui sovente la ferita era gravemente infetta e piena di vermi.
Con il tempo le sue condizioni generali erano deteriorate gravemente. Monica era ridotta ad uno scheletro e non poteva più camminare per una distanza simile.
Siamo andati noi a prenderla nella sua capanna a Kathwene ed abbiamo deciso che sarebbe stato necessario ricoverarla nel nostro primo letto a Chaaria per una terapia palliativa.
La medicavamo ogni giorno, la tenevamo pulita e le facevamo delle flebo in quanto non era in grado di alimentarsi adeguatamente, le praticavamo antibiotici ed antidolorifici.
Il problema era la notte, in quanto a quei tempi eravamo un dispensario che chiudeva alle 5 del pomeriggio, e non avevamo quindi personale oltre quell’orario.
Monica aveva ormai bisogno di tutto: dall’igiene personale, all’essere aiutata per i servizi igienici, all’imboccarla per mangiare.
Abbiamo quindi chiesto a Juliana, che allora si occupava delle pulizie, di iniziare il turno della notte semplicemente dormendo in una brandina al fianco del letto di Monica, in modo da essere presente e poter rispondere ad ogni suo bisogno notturno.
Monica è stata con noi per vari mesi prima di morire. Ci siamo presi cura di lei e l’abbiamo accompagnata al momento del supremo distacco con estrema dignità.
Ogni tanto venivano a trovarla i suoi figli, mentre il marito non si è mai fatto vedere... forse perchè temeva che gli chiedessimo di pagare qualcosa.
Ricordo che andammo io e Fr Lorenzo ad accompagnare a casa la salma di Monica; rammento la catapecchia in condizioni disastrose, i bambini che vagavano per il cortile, la fossa già scavata ed il marito seduto in un gruppetto di uomini.
Monica è stata deposta nella nuda terra, senza una Messa e senza la presenza di un prete (in quel periodo a Chaaria non avevamo il parroco ed anche noi siamo stati senza Messa per alcuni mesi). Ricordo che abbiamo recitato poche preghiere e poi abbiamo calato il suo corpo nella fossa.
Ci sarebbe stato anche un po’ di cibo preparato per tutti i partecipanti al “funerale” (come da tradizione da queste parti), ma Fr Lorenzo ed il sottoscritto non avevamo voluto fermarci.
Monica è stata la nostra prima ammalata cronica, ed anche la prima paziente che abbiamo accompagnato fino alla morte in regime di ricovero.
Non ho mai più visto nessuno della sua famiglia dopo quel giorno.
Come Karimi, anche lei è fissa nella mia memoria e di lei non mi posso dimenticare, perchè è una della pietre fondamentali delle fondamenta su cui la costruzione dell’ospedale si è poi lentamente consolidata.


Fr Beppe Gaido


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Chaaria è un sogno da realizzare giorno per giorno.

Un luogo in cui vorrei che tutti i poveri e gli ammalati venissero accolti e curati.

Vorrei poter fare di più per questa gente, che non ha nulla e soffre per malattie facilmente curabili, se solo ci fossero i mezzi.

Vorrei smetterla di dire “vai altrove, perché non possiamo curarti”.

Anche perché andare altrove, qui, vuol dire aggiungere altra fatica, altro sudore, altro dolore, per uomini, donne e bambini che hanno già camminato per giorni interi.

E poi, andare dove?

Gli ospedali pubblici hanno poche medicine, quelli privati sono troppo costosi.

Ecco perché penso, ostinatamente, che il nostro ospedale sia un segno di speranza per questa gente. Non ci sarà tutto, ma facciamo il possibile. Anzi, l’impossibile.

Quello che mi muove, che ci muove, è la carità verso l’altro, verso tutti. Nessuno escluso.

Gesù ci ha detto di essere presenti nel più piccolo e nel più diseredato.

Questo è quello che facciamo, ogni giorno.


Fratel Beppe Gaido


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