DIMENSIONI DEL PROBLEMA
Sebbene l’80% dei casi di AIDS si
trovi nell’Africa subsahariana, l’organizzazione sanitaria di questi Paesi è
spesso carente ed è andata peggiorando dai tempi dell’indipendenza dal colonialismo.
La situazione è tragica perché paradossalmente là dove si trova la maggior
parte dei pazienti, le terapie non ci
sono o sono al di fuori della portata della maggior parte della popolazione.
In Africa si registra ancora un
continuo aumento di nuovi casi d’ infezione e per quanto riguarda il Kenya in
particolare i dati forniti dalle organizzazioni governative di controllo danno
delle stime di prevalenza (cioè il numero totale dei pazienti), che si aggirano
sul 13% su scala nazionale, con grandi differenze tra una zona e l’altra del
Paese (per esempio in certe baraccopoli intorno a Nairobi la prevalenza sembra
essere di circa l’80%).
Purtroppo il distretto di Meru
detiene il triste primato di essere la zona del Kenya dove il numero di nuovi
casi continua a crescere più rapidamente
( i sieropositivi erano circa il 18% nel 1998, mentre attualmente sono circa il
28%). A tutt’oggi la percentuale di letti ospedalieri occupati da malati
affetti da AIDS e sindromi correlate è maggiore del 50% e si pensa che possa
ancora crescere nel prossimo futuro.
L’AIDS normalmente colpisce
giovani adulti che si trovano nella fascia lavorativa: tendenzialmente essi
sono sposati ed hanno già dei figli.
Dal punto di vista puramente
economico, questa terribile malattia sta eliminando i cittadini dell’età
produttiva ed ha gravi ripercussioni sia nell’industria che nell’agricoltura.
Inoltre la scomparsa degli adulti ha portato alla dissoluzione di interi nuclei
familiari, dove i figli sono rimasti orfani e si sono riversati nelle strade
delle varie città cercando di vivere di espedienti. Questo grave fenomeno degli
“street boys” (ragazzi di strada), costretti a vagare e a sniffare la colla per
non sentire i crampi della fame, è senza dubbio una delle più terribili conseguenze
dell’AIDS.
Altro elemento problematico è il
fatto che molte giovani donne scoprono di essere sieropositive quando sono
ormai gravide: da ciò deriva un notevole rischio di trasmissione verticale del
virus da madre a feto, sia durante i mesi della gestazione che durante il
parto.
Fino al 2001 in Kenya non c’era
alcuna possibilità di acquistare i farmaci antiretrovirali che hanno
contribuito al miglioramento delle condizioni di vita dei malati europei ed
americani.
I farmaci antiretrovirali sono
oggi disponibili e sono quasi gratuiti per il paziente, ma rimangono aperti
molti problemi, come l’accessibilità alle terapie, la distanza dai centri di
distribuzione, il fatto che gli esami diagnostici per studiare gli effetti
collaterali non sono gratuiti ed anzi sono molto costosi.
Le ragioni di questa estensione a macchia d’olio sono
complesse e numerose: certamente la miseria e l’ignoranza; ma anche il crollo
dei valori tradizionali, quali la famiglia e la fedeltà coniugale all’interno
di una cultura dove il sesso ricopre un’enorme importanza.
VIE DI TRASMISSIONE
Per quanto riguarda il Kenya si
può dire che circa il 90% dei contagi avviene per via sessuale, e più
precisamente eterosessuale; la trasmissione avviene attraverso rapporti non protetti con partners
occasionali, magari incontrati nel posto di lavoro che il più delle volte è
lontano da casa.
Nella maggior parte dei casi il
marito è costretto a lasciare la propria abitazione per andare a cercare lavoro
e soltanto raramente ha la possibilità di
ritornare in famiglia.
Le difficoltà e l’incapacità di
vivere una vita di astinenza lo porteranno a ricercare la compagnia di giovani
donne del posto. Quando ritornerà a casa, sarà lui il veicolo attraverso il
quale il virus potrà raggiungere la moglie e tramite lei probabilmente anche i
figli durante future gravidanze.
Altre vie di trasmissione possono
essere le punture accidentali per il personale addetto alla sanità o,
soprattutto per il passato, l’uso di siringhe e taglienti non propriamente
sterilizzati, o le trasfusioni di sangue non testate per il virus.
Due sono i principali ceppi di
virus responsabili della malattia: HIV1 ed HIV2.
La differenza tra i due consiste
soprattutto nella velocità con cui essi causano immunosoppressione e morte. Il
virus HIV1 causa una progressione di malattia molto più rapida mentre l’HIV2 è
responsabile di malattia meno aggressiva, che quindi dà al paziente molti più
anni di sopravvivenza. Purtroppo l’Africa Orientale è per il 95% affetta da
infezioni da HIV1: di conseguenza il tempo medio dalla comparsa dei sintomi
alla morte per i pazienti del nostro ospedale non supera i 2 anni.
LA TRASMISSIONE MATERNO-FETALE
Avviene principalmente durante il
travaglio ed il parto, anche se non si può escludere una trasmissione durante
tutto il corso della gravidanza.
Inoltre un’altra via attraverso
la quale il neonato può essere infettato è l’allattamento materno; dal momento
che il latte materno contiene alte quantità di virus.
Purtroppo non possiamo fare nulla
per aggredire quella percentuale d’ infezioni che avvengono durante il corso
della gravidanza; infatti i farmaci che permetterebbero di fare questo, se dati
alla madre fin dall’inizio della gestazione, sono al di fuori delle nostre
possibilità economiche.
Da alcuni mesi però c’è qualche
speranza per le trasmissioni che avvengono durante il travaglio ed il parto:
infatti abbiamo a disposizione un farmaco chiamato nevirapina che è in grado di
ridurre enormemente la percentuale di infezioni al feto. Tale farmaco costa
molto poco ed è assai facile da usare: è sufficiente somministrare una
compressa alla madre all’inizio delle doglie, ed un po’ di sciroppo al bambino
entro 72 ore dalla nascita.
Sembra che il farmaco funzioni
molto bene, anche se permane la tristezza per dover dire alla madre che la
medicina funzionerà solo per il bambino e non per lei, sul cui organismo invece
la malattia continuerà ad agire.
Per quanto riguarda
l’allattamento al seno, sarebbe certamente auspicabile proporre una totale
sospensione di tale pratica. Ma ci sono molti problemi anche da questo punto di
vista; il primo è ancora di carattere economico: i vari tipi di latte in polvere costano molto e non sono
facilmente reperibili nei villaggi più rurali. Inoltre a ciò si aggiunge il
problema dell’acqua, che spesso viene raccolta in ruscelli o pozze contaminate
e non viene successivamente bollita, perché non c’è legna a sufficienza. Ciò
può causare diarree così profuse da portare rapidamente il neonato alla
disidratazione ed alla morte.
Un altro problema constatato da
noi personalmente è che le mamme tendono a diluire il latte in quantità
eccessive di acqua per risparmiare, causando malnutrizione e ritardo di
crescita.
Per questo abbiamo aderito alle
linee guida nazionali che consigliano di allattare il bambino esclusivamente
per 4 mesi e di svezzare poi completamente, evitando l’alimentazione mista di
latte materno e cibi più solidi.
Siamo consapevoli del fatto che
così facendo non operiamo al meglio, ma studi condotti in Kenya ci dicono che è
forse la via che conduce alla massima riduzione possibile dei contagi dovuti al
latte materno.
PRESENTAZIONE CLINICA
Come ormai si sa quasi
universalmente, possiamo dividere il decorso della malattia in vari stadi:
quando si parla di contagio, ci si riferisce al momento in cui il virus
entra nell’organismo.
Per quanto riguarda il Kenya, il
contagio avviene normalmente per via eterosessuale, cioè attraverso un rapporto
sessuale non protetto con un partner sieropositivo. Normalmente il contagio non
si associa a nessun sintomo ed il paziente non avverte alcun problema. Da
questo momento il soggetto diventa contagioso perché il virus comincia a
replicarsi nel suo sangue e comincia a colonizzare vari tessuti dell’organismo.
Egli però non sa di essere malato. Purtroppo, se egli si dovesse recare
all’ospedale per qualunque ragione (per esempio per donare sangue ad un bambino
anemico a causa della malaria), i test a nostra disposizione ci direbbero che
egli è negativo, per un periodo di 3-5 mesi. E’ questo il cosiddetto periodo finestra
( “window period”); la ragione di questo tempo così pericoloso sta nella
natura dei test a nostra disposizione, che normalmente non possono testare la
presenza del virus ma solo quella di anticorpi contro di esso.
Generalmente l’organismo
necessita di un certo tempo per produrre una quantità di anticorpi
determinabile con l’esame di laboratorio. Nel periodo in cui il virus è nel
sangue, ma gli anticorpi non sono ancora formati, la persona è in “window
period”, cioè egli è infatti contagioso, ma non possiamo determinarlo con i
mezzi che abbiamo; si tratta di un tempo pericolosissimo che ci fa dire che
almeno in questa parte del mondo non si può parlare di trasfusioni
completamente sicure. L’OMS ( Organizzazione Mondiale della Sanità) ha
recentemente distribuito nel Terzo Mondo dei test rapidi chiamati ELISA di
terza generazione, che sembrano ridurre la durata della finestra a 5 settimane.
In Occidente esistono dei test in grado di trovare direttamente il virus (sono
chiamati PCR, dalle iniziali inglesi): tali metodi eliminano di fatto il
pericolo, ma non sono disponibili per noi.
Dopo un tempo variabile dai 3 ai
5 mesi, la persona che ha prodotto anticorpi diventa in effetti positiva (in
termini medici si dice che sieroconverte da negativo a positivo): la sieroconversione
di solito non si accompagna a sintomi ed il paziente non ne sarà al corrente.
In una certa percentuale di casi (che per il Kenya non supera il 20%), esiste
una malattia acuta ed autolimitante al momento della sieroconversione: il
soggetto sviluppa febbre, dolore alle giunture, cefalea, rigonfiamento dei
linfonodi al collo, ascelle ed inguine. Dopo alcuni giorni i sintomi
spariscono, e normalmente la persona interpreta il malessere dei giorni
precedenti come un attacco di malaria.
Il soggetto è dunque HIV
positivo, ma continua ad essere forte ed in ottima salute come prima: come mai?
Il virus va a replicarsi all’interno di un particolare tipo di globuli bianchi,
chiamati linfociti CD4+: queste cellule sono deputate alla difesa dell’organismo
da molti tipi di malattie infettive e di tumori. Per molti anni l’organismo è
capace di compensare il numero di cellule perse a causa dell’infezione, con la
formazione di nuove cellule all’interno del midollo osseo. Questa è la ragione
per cui la persona continua ad essere capace di difendersi dalle malattie, e
gode di buona salute ( si dice che è ancora immunocompetente).
Tale periodo di sieropositività
senza malattia per il Kenya dura all’incirca 8 anni: anche questo periodo è
molto pericoloso perché il paziente, non sapendo di essere contagioso,
continuerà con una consueta attività sessuale e normalmente non richiederà
alcun test.
Dopo circa 8 anni, il numero di
linfociti prodotto dall’organismo comincia a diminuire, mentre la velocità di
distruzione da parte del virus continua a crescere: sostanzialmente è come se
ci fosse un esaurimento funzionale del midollo osseo. In questo momento le
difese cominciano a diminuire progressivamente e la persona diventa
immunodeficiente, cioè incapace di difendersi da molte patologie che
gradualmente assaliranno l’organismo fino a portarlo alla morte. Quando le
difese del paziente diventano molto compromesse, egli si ammalerà di infezioni
così deboli che normalmente non riescono a contagiare persone immunocompetenti:
tali malattie in grado di attaccare solo pazienti con fasi avanzate di HIV si
chiamano opportunistiche, perché colgono l’opportunità della debolezza
del sistema immunitario per causare malattia. Quando il soggetto HIV positivo
sviluppa patologie sempre più gravi, perde peso corporeo e diventa emaciato e
pian piano si avvia verso la morte, egli entra nello stadio di AIDS
conclamato. Il tempo di sopravvivenza in questo stadio per noi non supera
mai i due anni per le persone che non possono accedere ai farmaci antiretrovirali,
mentre dobbiamo ammettere che è davvero molto più lungo per coloro che possono
permettersi l’acquisto di queste medicine.
Nella nostra situazione in Kenya,
possiamo dire che le infezioni che normalmente portano il paziente alla morte
sono di natura infettiva; anche le neoplasie sono presenti, ma globalmente
incidono di meno.
Il killer principale per noi è la
tubercolosi, che si associa all’HIV in altissima percentuale: si dice che l’80%
dei pazienti con AIDS in Kenya svilupperanno TBC nel corso della vita. La TBC
in un paziente sieropositivo sarà molto più aggressiva e più difficile da
curare perché spesso resistente ai farmaci e tendente a recidivare (cioè a
ricomparire nuovamente dopo la terapia).
L’altro grosso nemico sono le
diarree a volte irrefrenabili e continue per molti mesi: tale patologia porta
rapidamente alla disidratazione in un contesto semiarido e molto caldo con
ridotte possibilità di accesso all’acqua. Si parla a questo riguardo di “slim
disease”, cioè di malattia che porta ad una magrezza estrema.
Le cause più frequenti di diarrea
sono le comuni infestazioni intestinali, come l’ameba o la giardia; non mancano
però situazioni più complesse come il tifo addominale o altre infezioni
opportunistiche (per esempio la diarrea da criptosporidium parvum). Quasi
sempre inoltre i pazienti in fase avanzata di AIDS sviluppano una infezione
della bocca chiamata mughetto, che causa la formazione di placche biancastre
sulla mucosa orale, esofagea e gastrica. Il mughetto provoca al paziente una
sgradevole sensazione di bruciore in bocca, accompagnata da un sapore cattivo
per tutti i cibi. Per tale motivo il soggetto non riesce ad alimentarsi, fatto
che, aggiunto alla cronica diarrea, costituisce un giro vizioso che porta al
rapido decadimento delle condizioni generali e alla morte.
Il tumore più frequente nella
nostra casistica è rappresentato dal sarcoma di Kaposi, che è una neoplasia
maligna delle strutture vascolari la quale si presenta con placche e noduli
cutanei e mucosi di color violaceo o marrone scuro. Tale tumore si espande
lentamente e può interessare anche gli organi interni. La persona avverte
dolore nelle aree interessate, e spesso non riesce a nutrirsi, soprattutto
quando il sarcoma si espande alla bocca e all’apparato digerente. Purtroppo
anche in questo caso la chemioterapia rimane appannaggio di pochissimi, per
motivi esclusivamente economici. Si sa dalla letteratura medica che comunque il
sarcoma di Kaposi migliorerebbe notevolmente, anche solo con l’impiego dei
farmaci antiretrovirali, se solo le terapie fossero accessibili a tutti.
PREVENZIONE
Di fronte ad un problema di tale
portata per cui non disponiamo né di medicine, né di adeguati strumenti
diagnostici e tanto meno di tutto quell’apparato di supporto psicologico di cui
il paziente avrebbe bisogno, la nostra arma principale rimane soprattutto la
prevenzione.
Cerchiamo di lavorare sugli
studenti, sui gruppi parrocchiali e diocesani, sugli adulti che si preparano al
matrimonio, per insegnare loro che la nostra unica speranza per ora è
nell’evitare il contagio a tutti i costi. Sottolineiamo che con uno stile di
vita morigerato e fedele all’interno della coppia il contagio si può evitare.
Insegniamo inoltre a tutte le persone che ci frequentano che è cosa buona
sottoporsi ad un test HIV, perché questo può orientare le future scelte sia
matrimoniali che sociali. Riteniamo che insegnare e testimoniare la fedeltà
all’interno della coppia, e l’astensione assoluta da rapporti sessuali casuali,
sia la spina dorsale del nostro programma preventivo.
Sappiamo che il governo sta
facendo campagne molto serrate per l’uso del condom, ma ci rendiamo conto che
questa strada non può condurre alla soluzione del problema; e questo per vari
motivi. Principalmente la gente comune non ama “il sesso con il preservativo”
ed ha la tendenza ad avere rapporti non protetti, anche quando sa di essere a
rischio. Inoltre moltissimi sono coloro che davvero non sanno usare questo
strumento il cui impiego improprio porta spesso non solo a contagi non
previsti, ma anche a gravidanze non desiderate e va quindi ad aggravare un
altro grande problema sociale, quello
rappresentato dagli aborti criminali espletati da personale non competente ed
in condizioni igieniche terribili. C’è poi da tenere conto del fatto che anche
il modo in cui i condom vengono conservati, sia nei magazzini dei rivenditori,
sia a casa, è spesso inadeguato; da ciò consegue un alto rischio di rottura
durante l’uso dovuto all’eccessiva secchezza del prodotto.
Noi riteniamo che sia importante
lavorare insieme agli insegnanti, perché in tal modo si può interagire con il
futuro, con coloro che costituiranno il Kenya di domani, con coloro che saranno
chiamati a portare avanti il nostro messaggio di prevenzione alle prossime
generazioni.
PS: la foto di Stella ve la
ripresento perchè anche lei è una vittima dell’AIDS
Fr Beppe Gaido
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