Sono le 6.30 e sto guidando la preghiera nella nostra cappellina. Ho appena
intonato il canto dell’inno quando si apre la porta della chiesa e vedo entrare
uno dei watchmen della notte: ha con sé il pesante bastone, veste il lungo
cappotto ed in mano ha il passamontagna che si e’ appena tolto prima di fare la
genuflessione.
Non parla ma mi guarda fisso: il messaggio mi e’ chiaro. Lascio
a Fr Domenic il compito di continuare con i salmi, mentre io seguo Paul ed
esco: “Cosa e’ successo?” gli chiedo a bruciapelo.
“Hanno portato un uomo tagliato dappertutto, e sta sanguinando molto!”
Comprendo che anche oggi saltero’ la messa, ma so che il Signore e’ molto
meno formale di noi e capisce quando non possiamo proprio fare diversamente.
Arrivato all’outpatient mi trovo davanti una scena raccapricciante.
Aveva
proprio ragione Paul. Quel vecchio tutto sporco di terra e’ veramente fatto a
fettine. Mi assale un forte senso di scoraggiamento: non so come toccarlo, non
ho idea di evetuali fratture ossee.
Per un momento il mio elettroencefalogramma
resta piatto: mi passano davanti scene gia’ vissute, come quella di Kawira la
sera di capodanno o come quella del vecchietto sbranato dai cani alcuni mesi
fa. Cerco di concentrarmi e di dare un ordine logico alle mie azioni: dico alle
infermiere di reperire una vena prima che l’uomo collassi e di infondere
liquidi ad alta velocita’.
Mando a chiamare Jesse per l’anestesia e Joel per i
gruppi sanguigni e le prove crociate. Io stesso chiamo Makena con il
cercapersone e le dico di venire subito.
Dai parenti raccolgo una storia molto triste: Kaburu e’ vedovo e vive da
solo in una baracca di legno nel mezzo del suo appezzamento di terra. La casa
piu’ vicina dista piu’ di un chilometro.
Nel cuore della notte sono arrivati dei ladri, che poi hanno iniziato a
colpirlo all’impazzata. Il vecchio non ricorda quanti fossero. Sa solo che
infierivano con il machete, e continuavano a “tagliare” anche quando ormai era
a terra privo di forze, seppure ancora cosciente.
Posso verificare la
veridicita’ di queste affermazioni in quanto le lacerazioni da panga sono
veramente sparse su tutta la persona, compresi i piedi... e’ come se un
malvivente si fosse ancora girato prima di andarsene, ed avesse colpito per
l’ultima volta l’uomo che giaceva supino con i piedi verso la porta.
Nessuno ha sentito le sue urla perche’ la capanna e’ isolata, e Kaburu ha
dovuto strisciare attraverso il suo campo per oltre un chilometro, arrivando
poi alla casa dei vicini, che quindi lo hanno portato qui in ospedale con un
carretto trainato da una mucca.
Mentre ancora stavo ascoltando la storia, vengo chiamato dalle infermiere
perche’ il paziente era in shock a causa della forte emorragia.
Anche prima di
avere il sangue pronto decido di infondere dell’emagel, che serve per tenere su
la pressione per un po’ finche’ si e’ pronti con la trasfusione.
Meno male che il paziente risponde bene! Dopo 500 ml di quella soluzione,
riprende a respirare normalmente e a parlare, addirittura prima che iniziassimo
la trasfusione.
La sutura di tutte quelle ferite e’ stata lunghissima: ci ha occupati fino
alle 12.30. E’ stato
un bel lavoro di équipe in cui sia io che Makena continuavamo a cucire in
parti diverse del corpo. Abbiamo prima lavorato a paziente supino, e poi lo
abbiamo dovuto girare a pancia in giu’ per riparare le lacerazioni della
schiena.
Tendini, muscoli, fasce, cute... tutto pian piano ritornava al proprio
posto. Ci sentivamo come dei sarti. Tutto avveniva sotto gli occhi vigili di
Jesse che si occupava delle condizioni generali del malato.
Cammin facendo ci siamo resi conto che il povero sventurato aveva anche due
fratture: una alla gamba sinistra e l’altra alla scapola destra.
Abbiamo quindi
richiesto la collaborazione di Martin. Il nostro fisioterapista come sempre e’
stato bravissimo, ed ha completato il nostro lavoro con dei gessi alquanto
complessi, perché dovevano sia contenere le fratture che permettere l’apertura
di finestre attraverso cui medicare le ferite.
Kaburu adesso e’ a letto, e sorride: non ha male perche’ gli facciamo
antidolorifici. I suoi figli non fanno che ringraziarci perche’ lo abbiamo
salvato... A me pero’ e’ rimasta una domanda: perche’ tanta cattiveria? Perche’
infierire cosi’ brutalmente su un anziano inerme? Come facevano i ladri a
sapere che lui viveva da solo in quella catapecchia isolata? Forse i banditi
vengono dallo stesso villaggio, e magari sono anche suoi vicini: lui dice di
non averli riconosciuti perche’ era buio.
Ora questa gente violenta e’ a piede libero, e potrebbe attaccare altre
persone che vivono da sole.
Questo pensiero un po’ mi turba ricordando tanti
amici che vivono in casette di legno sparse per la boscaglia: “dobbiamo solo
pregare che Dio ci protegga tutti”, mi dice Makena mentre da’ l’ultimo punto di
sutura.
Io pero’ continuo a non capire perche’ l’uomo debba cosi’ spesso cercare la propria autorealizzazione nel far
del male agli altri. Il mistero della malvagita’ umana mi turba e mi confonde:
a distanza di duemila anni ancora e’ valido il detto romano: “homo homini
lupus”, e noi spendiamo molto del nostro tempo a riparare i danni che i malvagi
infliggono a gente innocente ed indifesa. Forse la riposta a questa domanda la
trovero’ solo in Paradiso... per ora continuo ogni giorno con le mie battaglie,
sperando di strappare alla morte quante più vite mi sia possibile.
Fr Beppe
1 commento:
Simili barbarie fanno ammutolire di sgomento e dispiacere. Mi rendo conto di quanto la sofferenza tocchi ciascuno di noi in modo differente, relativamente al senso della vita e il dolore, e quanto ancora la coscienza umana sia assopita e primitiva. Spesso mi vergogno della mia possibilità di respirare liberamente , quando poi c'è chi non ha diritto neppure a quello.
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