lunedì 25 aprile 2016

Quadretto africano

Ho appena finito di pregare le lodi mattutine in cappella.
La luce è mancata per gran parte della notte. Il cielo è plumbeo dopo gli acquazzoni notturni, però al momento non piove.
Mi avvio vero la chiesa parrocchiale per la messa, ma, arrivato al cancello della missione, mi accorgo di avere nei piedi le solite ciabatte.
C’è troppo fango per strada e non voglio sporcare troppo le calzature che poi userò durante il lavoro. Ritorno quindi verso il mio studio in ospedale, dove in un angolo tengo gli stivali.
La luce dei pannelli solari è fioca, ma non ho certo bisogno di tanta illuminazone per mettermi i gambali.
Senza pensarci troppo, infilo il piede destro nello stivale, ma la coda dell’occhio viene attratta da una cosa lunga e nera che striscia a ziz zag a fianco della mia calzatura.
Non ho dubbi. E’ un mamba nero, piccolo abbastanza da essersi infilato sotto la porta del mio ambulatorio per cercare un posto asciutto.




Ormai la cosa non mi crea più alcun panico, anche se proprio ieri ho fatto la toeletta chirgica ad una mano quasi distrutta dal morso di un mamba nero. Tolgo il piede dal gambale, e rimetto la ciabatta. Chiamo forte Kanana e le chiedo di venire con una scopa.
Io non mi muovo perchè non voglio perdere di vista l’angolo verso cui ho visto strisciare il serpente.
Con l’aiuto di Kanana sposto l’armadio verde che ho vicino alla porta, e vedo il rettile attorcigliato in quell’angolino dove normalmente metto l’ombrello e gli stivali.
Brandisco la mia scopa, ma lo manco al primo colpo, e gli do quindi il tempo di tentare la fuga.
Il secondo colpo arriva però a segno senza problemi: lo prendo sulla testa e per lui è finita.
L’infermiera della notte urla di paura, e Kanana tiene le distanze di sicurezza.
Il serpente però è morto.
Chissà per quanto tempo abbiamo vissuto nella stessa stanza senza neppure saperlo.
Ora però almeno lui non c’è più, anche se nella stagione delle piogge bisogna fare attenzione pure a tarantole e scorpioni.
Mi sa che da domani guarderò con scrupolosità dentro lo stivale, prima di infilarmelo per andare a messa.

Fr Beppe Gaido

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Chaaria è un sogno da realizzare giorno per giorno.

Un luogo in cui vorrei che tutti i poveri e gli ammalati venissero accolti e curati.

Vorrei poter fare di più per questa gente, che non ha nulla e soffre per malattie facilmente curabili, se solo ci fossero i mezzi.

Vorrei smetterla di dire “vai altrove, perché non possiamo curarti”.

Anche perché andare altrove, qui, vuol dire aggiungere altra fatica, altro sudore, altro dolore, per uomini, donne e bambini che hanno già camminato per giorni interi.

E poi, andare dove?

Gli ospedali pubblici hanno poche medicine, quelli privati sono troppo costosi.

Ecco perché penso, ostinatamente, che il nostro ospedale sia un segno di speranza per questa gente. Non ci sarà tutto, ma facciamo il possibile. Anzi, l’impossibile.

Quello che mi muove, che ci muove, è la carità verso l’altro, verso tutti. Nessuno escluso.

Gesù ci ha detto di essere presenti nel più piccolo e nel più diseredato.

Questo è quello che facciamo, ogni giorno.


Fratel Beppe Gaido


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