giovedì 20 luglio 2017

La ciliegina sulla torta

E' mezzogiorno e mi chiamano in laboratorio per analizzare un campione delle feci.
Sono molto preoccupati e non demordono neppure quando dico loro che la paziente per il cesareo e' gia' spinalizzata. "Basta un minuto, ma devi venire adesso!"
Vogliono semplicemente che guardi le feci acquose che essi hanno in un contenitore sul bancone.
Al primo sguardo non ho dubbi su quello che potrebbe essere, tanto piu' che ci sono focolai di epidemia qua e la' in tutta la nazione.
Ovviamente un po' mi preoccupo nella situazione di sovraffolamento che stiamo sperimentando.
Vado a vedere il paziente che ha diarrea continua, acquosa ed estremamente abbondante. In piu' vomita anche l'anima, ragion per cui e' estremamente disidratato.
Il quadro clinico e l'apparenza del campione mi portano direttamente alla diagnosi: deve trattarsi di colera.
Avviso immediatamente le autorita' e chiedo di venire a prendere il campione per gli esami necessari ad isolare il vibrione colerico (ovviamente noi ne siamo sprovvisti): la nostra per ora rimane una diagnosi presuntiva.
La reazione e' abbastanza lenta.
Mi dicono di isolare il paziente, di dargli un sacco di liquidi e di somministrargli doxiciclina. Nei giorni seguenti verranno per il campione.


Mi assicurano che faranno loro il sopralluogo nel suo villaggio per capire se altri membri della famiglia o del circondario possano presentare sintomi analoghi.
Tento il trasferimento a Meru, in quanto siamo cosi' congesti che trovare un luogo per apprestare un isolamento e' alquanto difficile.
La risposta, come per altro mi immaginavo, e' negativa perche' i reparti sono chiusi a causa dell'assenza del personale infermieristico.
Non possiamo mandare via un malato cosi' grave, e non possiamo neppure metterlo in reparto.
Decidiamo quindi che l'unica soluzione per isolare il malato in modo assolutamente sicuro per gli altri pazienti e' di usare la nuova struttura del laboratorio analisi non ancora terminata.
E' un'inaugurazione anomala, ma anche per la cappella dell'ospedale e' stato cosi'...ed onestamente non ne sono scontento.
Con l'aiuto del personale della manutenzione, della matron e dell'instancabile Sr Anna, apprestiamo una stanza di isolamento.
Vi apponiamo comoda e lavello in modo che il paziente possa defecare e lavarsi le mani senza mai uscirne.
Prepariamo tutto il materiale di protezione per il personale: guanti, grembiuli impermeabili, stivali, candeggina a litri.
Sr Anna si e' presa cura della parte clinica.
Per esperienza raccolta in epidemie precedenti, i malati di colera li perdiamo nelle prime otto ore dall'inizio della diarrea, perche' questa e' cosi' massiva che rapidamente disidrata fino alla morte...e la soluzione (relativamente facile ed alla nostra portata) sta tutta nella somministrazione precoce di antibiotici e soprattutto nella robusta reidratazione sia orale che endovena.
Il malato odierno e' stato ricoverato in isolamento verso le ore 16.30.
In sette ore siamo riusciti a dargli sei litri di soluzioni elettrolitiche endovenose. Grazie al plasil in vena siamo riusciti anche a somministrargli la doxiciclina senza che la vomitasse e poi un bel litro si soluzione reidratante orale.
Sono ora le 23. Il paziente non vomita piu'. Le scariche acquose che lo disidratavano sembrano al momento cessate.
Non e' un uomo giovane, ma la stoffa sembra buona. io spero proprio che ce la fara'.
Di notte lo staff continuera' ad idratarlo e per esperienza passata, domani potrebbe essere tutta un'altra persona. Potremmo gia' dimetterlo dopodomani.
Per adesso il caso e' isolato e speriamo che rimanga tale.
Noi comunque ci siamo attrezzati e siamo pronti per ogni evenienza.
Sono contento di aver accolto il paziente, nonostante le ovvie paure dello staff.
Sono molto sollevato dai suoi grandi miglioramenti.
Sono pieno di speranza che il caso rimanga isolato.

Fr Beppe

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Chaaria è un sogno da realizzare giorno per giorno.

Un luogo in cui vorrei che tutti i poveri e gli ammalati venissero accolti e curati.

Vorrei poter fare di più per questa gente, che non ha nulla e soffre per malattie facilmente curabili, se solo ci fossero i mezzi.

Vorrei smetterla di dire “vai altrove, perché non possiamo curarti”.

Anche perché andare altrove, qui, vuol dire aggiungere altra fatica, altro sudore, altro dolore, per uomini, donne e bambini che hanno già camminato per giorni interi.

E poi, andare dove?

Gli ospedali pubblici hanno poche medicine, quelli privati sono troppo costosi.

Ecco perché penso, ostinatamente, che il nostro ospedale sia un segno di speranza per questa gente. Non ci sarà tutto, ma facciamo il possibile. Anzi, l’impossibile.

Quello che mi muove, che ci muove, è la carità verso l’altro, verso tutti. Nessuno escluso.

Gesù ci ha detto di essere presenti nel più piccolo e nel più diseredato.

Questo è quello che facciamo, ogni giorno.


Fratel Beppe Gaido


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