sabato 26 agosto 2017

Un giorno credi

In questi giorni mi risuona nella testa la melodia di una vecchia canzone che cantavo attorno al falo’ con i miei amici negli anni spensierati del liceo.
E’ di Edoardo Bennato.
La musica me la ricordo benissimo… le parole, forse un po’ a senso, suonano piu’ o meno cosi’: “un giorno credi di esser giusto, e di essere un grande uomo; in un altro ti svegli e devi cominciare da zero”.
Piu’ avanti la canzone dice inoltre piu’ o meno: “…fatti forza e va’ incontro al tuo giorno; non tornar sui tuoi soliti passi: basterebbe un istante!”
Indubbiamente in questi giorni tendo alla malinconia ed alla depressione, forse a motivo del superlavoro che dura da mesi e mesi o della deprivazione di sonno (nell’ultima settimana le chiamate notturne per cesareo sono state insistenti), ed e’ chiaro che e’ probabilmente il mio stato d’animo ad aver riportato a galla tale canzone.
E’ vero che a volte ho la tentazione di sentirmi un grande uomo, magari quando vedo l’ospedale pienissimo e la gente andar via contenta dopo la terapia, oppure quando un intervento chirurgico va bene (oggi tra l’altro abbiamo avuto un’emicolectomia sinistra per carcinoma del colon, una tirodectomia per enorme gozzo, un’occlusione intestinale, un’isterectomia con utero piu’ grande di una gravidanza a termine, oltre a sei cesarei...e tutti sembrano andati bene!).


Ma sono solo degli attimi, dei flash in cui quasi ho paura di sentirmi soddisfatto perche’ lo so per esperienza che tali momenti di pienezza sono effimeri e preparano il terreno per un tonfo normalmente piu’ doloroso.
E’ molto piu’ frequente per me sentirmi con le batterie scariche e con un filo di scoraggiamento che mi attanaglia la gola: puo’ essere un paziente che e’ morto malgrado i miei sforzi, oppure un’operazione non andata come speravo.
A volte poi la causa della mia depressione sono io stesso: quando l’emotivita’ prende il sopravvento e non riesco a controllarmi; quando sono troppo nervoso con i collaboratori o con i pazienti.
Ma anche queste situazioni mi sono utili: mi ricordano quanto limitato io sia e mi salvano dalla tentazione della superbia. Da anni poi il Signore mi ha fatto dono di uno spiccatissimo senso di colpa che avverto anche fisicamente come una mano che mi attanaglia lo stomaco: questo sentire mi porta in genere assai rapidamente ad andare dalle persone che posso aver offeso ed a chiedere apertamente perdono. 
Lo faccio anche con i malati.
Riguardo alla depressione ed allo scoraggiamento che a volte mi assalgono per la morte di un paziente o per qualcosa andato storto, davvero assumo sempre un atteggiamento simile a quello che Bennato descrive. 
Cerco di scrollarmi, di non piangermi addosso, di farmi forza e di andare avanti ricominciando sempre da zero. 
Lo so che in medicina ogni sbaglio, reale o solo percepito, ha la forza di paralizzarti: ecco perche’ in genere mi faccio forza, opero subito ed ancora di piu’, non mi piango addosso, consapevole che e’ un po’ come dopo un incidente stradale: se smetti di guidare, poi non ricominci piu’. Lo penso sempre: se smetto di operare, poi mi paralizzo e non aiuto piu’ nessuno.
Per cui e’ proprio vero: un giorno credo di essere un giusto, ma subito dopo avverto che sono a terra e devo ricominciare da zero.
Fortunatamente finora il Signore mi ha sempre dato la forza di farlo: ricominciare e’ un obbligo morale per il bene di chi ha ancora bisogno delle mie mani e del mio cervello.

PS Nella foto Sara e Francesco, stupendi volontari appena rientrai in Italia

Fr Beppe


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Chaaria è un sogno da realizzare giorno per giorno.

Un luogo in cui vorrei che tutti i poveri e gli ammalati venissero accolti e curati.

Vorrei poter fare di più per questa gente, che non ha nulla e soffre per malattie facilmente curabili, se solo ci fossero i mezzi.

Vorrei smetterla di dire “vai altrove, perché non possiamo curarti”.

Anche perché andare altrove, qui, vuol dire aggiungere altra fatica, altro sudore, altro dolore, per uomini, donne e bambini che hanno già camminato per giorni interi.

E poi, andare dove?

Gli ospedali pubblici hanno poche medicine, quelli privati sono troppo costosi.

Ecco perché penso, ostinatamente, che il nostro ospedale sia un segno di speranza per questa gente. Non ci sarà tutto, ma facciamo il possibile. Anzi, l’impossibile.

Quello che mi muove, che ci muove, è la carità verso l’altro, verso tutti. Nessuno escluso.

Gesù ci ha detto di essere presenti nel più piccolo e nel più diseredato.

Questo è quello che facciamo, ogni giorno.


Fratel Beppe Gaido


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