domenica 4 novembre 2018

Una domenica qualunque

Ha piovuto tutta la notte e probabilmente oggi sara’ tranquillo. Con questa speranza apro gli occhi alle 7.30, dopo una profonda dormita, cullata dal battito ritmico delle gocce d’acqua sui tetti. 
Mi sveglio con questa speranza: passano pero’ solo due minuti ed il cicalino fa sentire la sua voce gracchiante: “Doctor, there is a fetal distress.
Come quickly!”.
Mi guardo in giro e faccio mente locale. Alle 8.15 gia’ siamo lavati e tutto sta andando per il meglio... la giovane mamma e’ molto collaborante e non ci sono complicazioni in vista. Il neonato e’ un maschio; piange vigorosamente e fa la pipi’ mentre e’ ancora sul lettino operatorio. 
Quando inizia la Messa stiamo chiudendo fascia e cute: con mia sorpresa odo la paziente cantare e seguire le fasi iniziali della celebrazione. “Buon segno – ho pensato. – Vuol dire che sta bene”.
Finiamo in tempo per unirci al rito domenicale, anche se ci arriviamo dopo il Vangelo. La mattinata e’ poi trascorsa come al solito. 
Non molta gente in ambulatorio, visto che fuori diluvia e le strade sono ormai ridotte a torrenti in piena. 


Pero’ avere 160 pazienti ricoverati mi da’ lavoro a sufficienza per non annoiarmi. In piu’ mi offre la calma che spesso mi manca per visitare i degenti con piu’ attenzione.
E’ quasi ora di pranzo, e forse oggi riesco a mangiare con gli altri.
Temevo per un altro travaglio prolungato, ma poco fa la mamma ha partorito un bel pupacchiotto. 
Mi rimane solo una ecografia dal reparto donne. Il clinical officer dice di sospettare una cisti ovarica. Preferisco vederla oggi, dato che il lunedi’ e’ sempre complicato, con o senza pioggia.
La malata e’ pallidissima, e la cosa non mi piace.
Appena le metto la sonda sulla pancia mi rendo conto che la situazione e’ complessa... forse drammatica. Ci sono delle masse irregolari nel bacino. Non riesco a capire bene di cosa si tratti. Pare che siano grossi ematomi consolidati. 
Non individuo una chiara immagine
dell’utero. Il test di gravidanza e’ negativo. Ma all’eco scopro una enorme quantita’ di fluido nell’addome. Non mi sembra acqua perche’ e’ troppo densa: “pare pus o sangue”.
Le pratico una paracentesi esplorativa, cioe’ la buco con ago e siringa ed aspiro: e’ veramente sangue... il peggior scenario che potessi aspettarmi alle 13 di una domenica.
Penso immediatamente ad una gravidanza ectopica, non dando troppo peso al test di gravidanza, che e’ sovente negativo in questa complicazione.
La donna mi dice che non e’ possibile, perche’, dopo tre cesarei in altri ospedali, le era stata fatta la legatura delle tube. 
Tale dato mi turba ulteriormente, ma dico a me stesso che a volte le salpingi si ricanalizzano, che ci possono essere degli errori tecnici del chirurgo, e che, comunque sia, bisogna ad ogni modo aprire quella pancia, perche’ l’emorragia interna va fermata. Attiviamo quindi la procedura d’urgenza: prove crociate per due sacche di sangue. Per
fortuna la donna e’ di gruppo A positivo e siamo provvisti di sangue compatibile.
Siamo in sala dopo meno di dieci minuti. 
Appena aperto l’addome veniamo investiti da una doccia di sangue... litri e litri che si riversano sul campo operatorio, in quanto l’aspiratore non ce la fa... e poi sui nostri camici e sui nostri piedi.
Mettendo le mani in quella pancia, mi rendo conto che non si tratta di una gravidanza extra, ma di un orribile tumore (forse un coriocarcinoma dell’utero), che ha eroso varie arterie ed sta causando una emorragia interna massiva.
Le condizioni della paziente peggiorano rapidamente e Jesse ha davvero il suo da fare per infondere sangue e tenerla viva. 
Solo alla fine dell’intervento ci dice che la malata e’ stata a lungo senza polso e senza pressione: “non ve l’ho detto perche’ non volevo agitarvi di piu’ in una situazione gia’ estrema”.
E’ stata una di quelle situazioni in cui vorresti sprofondare, o svenire, per lasciare ad altri la patata bollente. Il sanguinamento arterioso continua minaccioso, e tutte le volte che proviamo a clampare una arteria, i friabili tessuti neoplastici si lacerano, e l’emorragia e’ peggio di prima.
E’ sempre difficile quando parti per un tipo di operazione, e devi cambiare i tuoi piani nel bel mezzo di una emergenza: spesso non sei preparato psicologicamente; non hai gli strumenti adatti; a volte non hai mai fatto prima un intervento del genere e ti devi improvvisare.
Poi e’ una lotta contro il tempo, perche’ le condizioni del malato peggiorano minuto per minuto, fintantoche’ le arterie non vengono chiuse.
Decido che non e’ il caso di fermare l’emorragia legando le arterie.
Bisogna procedere ad una isterectomia d’urgenza. Lavoriamo con fatica, perche’ l’anatomia e’ tutta alterata dal tumore. Qualunque cosa sfioriamo, sanguina. Ad un certo punto non capiamo piu’ niente, e continuiamo a dare punti attorno ad una vaso che non riusciamo mai a chiudere. E’ a questo punto che mi ricordo del consiglio ricevuto dal King, grande maestro di chirurgia tropicale: “quando non sai piu’ cosa fare, metti un telo sterile sulle parti sanguinanti, chiedi ad un tuo assistente di comprimere in modo da fermare l’emorragia. Tu appoggiati al lettino; respira lungo e calmati!”.
Cosi’ ho fatto. Dopo alcuni minuti di pausa, in cui Jesse ha comunque dato segni di insofferenza per la nostra inattivita’, sono riuscito ad assestare il colpo vincente: un punto da materassaio che ha imprigionato l’arteria.
Ci abbiamo messo tre ore, di domenica pomeriggio. Abbiamo infuso tre sacche di sangue. Ho poi dovuto star vicino alla donna fin verso le ore 20, per monitorare il post-operatorio... ma chiaramente abbiamo avuto la percezione di averle salvato la vita.
Non sappiamo ancora di che cosa si tratti: aspettiamo l’istologico.
Speriamo che non ci siano metastasi. Ma una cosa e’ certa: Purity sarebbe morta durante la notte se non avessimo avuto il coraggio di aprirla.

Fr Beppe

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Chaaria è un sogno da realizzare giorno per giorno.

Un luogo in cui vorrei che tutti i poveri e gli ammalati venissero accolti e curati.

Vorrei poter fare di più per questa gente, che non ha nulla e soffre per malattie facilmente curabili, se solo ci fossero i mezzi.

Vorrei smetterla di dire “vai altrove, perché non possiamo curarti”.

Anche perché andare altrove, qui, vuol dire aggiungere altra fatica, altro sudore, altro dolore, per uomini, donne e bambini che hanno già camminato per giorni interi.

E poi, andare dove?

Gli ospedali pubblici hanno poche medicine, quelli privati sono troppo costosi.

Ecco perché penso, ostinatamente, che il nostro ospedale sia un segno di speranza per questa gente. Non ci sarà tutto, ma facciamo il possibile. Anzi, l’impossibile.

Quello che mi muove, che ci muove, è la carità verso l’altro, verso tutti. Nessuno escluso.

Gesù ci ha detto di essere presenti nel più piccolo e nel più diseredato.

Questo è quello che facciamo, ogni giorno.


Fratel Beppe Gaido


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