domenica 20 gennaio 2019

La medicina di Madre Teresa

Era abbastanza anziana per i nostri standard: aveva 54 anni...e quindi piu’ giovane di me.
L'avevo visitata per un sanguinamento mestruale iniziato alcuni anni dopo l'instaurarsi della menopausa, ed avevo trovato, come purtroppo spesso accade, un carcinoma della cervice uterina così avanzato che di chirurgia non se ne poteva proprio più parlare.
Il mio primo dovere era stato quello di dirle la verità: ci credo molto a questo aspetto basilare del rapporto medico-paziente. 
La verità va detta, con delicatezza e senza brutalità, ma assolutamente va detta: quando il paziente conosce la sua condizione la smette di rivolgersi a medici affamati di soldi che promettono guarigioni improbabili con farmaci miracolosi, costosissimi e privi di basi scientifiche. 
La verità difende anche quindi le magre finanze del malato e lo aiuta a stabilire le sue priorità per il tempo che ancora gli rimane da vivere: spesso quei soldi che sarebbero stati divorati da medici-avvoltoi, potranno essere usati per esempio per sistemare e terminare il curriculum scolastico dei figli. 
Inoltre la verità sovente invoglia pure a sistemare eventuali divisioni e litigi nelle famiglie, a sistemare i rapporti tra parenti prima che sia troppo tardi... e dona anche la possibilità di ripensare un po' a Dio, e di mettersi a posto anche con Lui.
Timidamente le avevo poi proposto la radioterapia a Nairobi, ma i suoi vestiti stracciati già mi dicevano che la risposta sarebbe stata negativa per motivi economici.
Così infatti è stato!


Insieme abbiamo quindi deciso che l'avrei aiutata con la terapia palliativa: le avrei dato degli analgesici per non farla soffrire, l'avrei trasfusa quando fosse stata anemica, sarei stato a sua disposizione per le mille complicazioni che purtroppo i tumori, nella loro perversa fantasia, seminano nella vita tribolata di questi pazienti.
L'ho rivista a cadenza di circa quindici giorni ed il nostro cammino è durato quasi un anno: l'ho sempre assistita con terapie ambulatoriali e solo una volta l'ho dovuta trasfondere.
In genere le sue condizioni sono state decisamente buone, ed il dolore sotto controllo.
In questo servizio di "Medicina alla Madre Teresa di Calcutta", come spesso la definiamo qui a Chaaria, sono stato sempre sostenuto dalla nostra farmacista Lydia, vicina di casa della paziente: a volte, quando le cose andavano bene e la terapia analgesica era efficace, la paziente non veniva neppure in ospedale, ma mandava Lydia a prendere i farmaci ed a riferirmi i nuovi sintomi.
Questa mattina stavo scrivendo l'esito di un intervento chirurgico ed ero nel mio studio con la porta aperta; in corridoio ho visto passare una barella con un corpo coperto completamente da un lenzuolo bianco.
A spingere la barella c'era anche Lydia, che, con il sorriso di chi ha compiuto bene la sua missione, mi ha detto: "è tornata a casa. Adesso è contenta e non ha più dolore".
Mi ha fatto tenerezza veder passare quel corpo che ora riposa temporaneamente nel nostro obitorio, prima di essere restituito alla terra: non ho provato la solita angoscia che mi assale quando perdo un paziente, ed ho pensato che è una grande missione quella di
accompagnare le persone fino al momento della morte.
Ho pensato a Madre Teresa e mi sono sentito in comunione con lei che ora e’ Santa.
Le ho chiesto di accogliere questa povera donna nel Paradiso che certamente si merita, perchè il purgatorio lo ha vissuto ampiamente su questa terra.
A volte la morte attesa e preparata mi pare un po' più leggera. Lydia poi mi ha detto che non ha sofferto e che negli ultimi giorni era serena...e questo già rende la nostra azione di sostegno clinico un grande successo umano.
"Riposa in pace, e che il viaggio ti sia lieve!"

Fr Beppe

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Chaaria è un sogno da realizzare giorno per giorno.

Un luogo in cui vorrei che tutti i poveri e gli ammalati venissero accolti e curati.

Vorrei poter fare di più per questa gente, che non ha nulla e soffre per malattie facilmente curabili, se solo ci fossero i mezzi.

Vorrei smetterla di dire “vai altrove, perché non possiamo curarti”.

Anche perché andare altrove, qui, vuol dire aggiungere altra fatica, altro sudore, altro dolore, per uomini, donne e bambini che hanno già camminato per giorni interi.

E poi, andare dove?

Gli ospedali pubblici hanno poche medicine, quelli privati sono troppo costosi.

Ecco perché penso, ostinatamente, che il nostro ospedale sia un segno di speranza per questa gente. Non ci sarà tutto, ma facciamo il possibile. Anzi, l’impossibile.

Quello che mi muove, che ci muove, è la carità verso l’altro, verso tutti. Nessuno escluso.

Gesù ci ha detto di essere presenti nel più piccolo e nel più diseredato.

Questo è quello che facciamo, ogni giorno.


Fratel Beppe Gaido


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