mercoledì 3 aprile 2019

Lettera di Caterina

Caro Beppe,
sono appena rientrata in Italia e ti scrivo per ringraziati ancora per questa esperienza incredibile.
Durante il viaggio che divide Chaaria e Nairobi ho pensato tanto: ho il cuore e la mente piene di emozioni nuove, di volti e sorrisi che chissà se rivedrò ancora, ma che so per certo avermi cambiata. 
Mi hanno regalato la possibilità di vedere oltre la banalità delle nostre vite agiate e pretenziose, di soffermarmi sull’importanza di un sorriso, di un abbraccio, ma a volte anche solo di uno sguardo capace di andare oltre ogni barriera linguistica, mi hanno insegnato la pazienza e, come dici tu, l’amore incondizionato, che certamente si prende tanto ma quel che restituisce non ha prezzo.
Lascio questa tua terra meravigliosa con una stretta al cuore e tanta nostalgia ma con la consapevolezza di essere cresciuta, di aver conosciuto una realtà che seppur così lontana da quella di tutti giorni è stata capace di farmi sentire a casa, e felice di aver potuto far parte, anche solo per poco tempo, di questa grande e stravagante “famiglia” che è Chaaria.


Ti abbraccio, e per quel poco che può contare voglio dirti che hai tutta la mia più profonda ammirazione, come medico e come persona, non smettere mai di fare quello in cui credi e che in qualche strano modo ti rende felice anche quando sei così stanco da pensare di non farcela.

Caterina

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Chaaria è un sogno da realizzare giorno per giorno.

Un luogo in cui vorrei che tutti i poveri e gli ammalati venissero accolti e curati.

Vorrei poter fare di più per questa gente, che non ha nulla e soffre per malattie facilmente curabili, se solo ci fossero i mezzi.

Vorrei smetterla di dire “vai altrove, perché non possiamo curarti”.

Anche perché andare altrove, qui, vuol dire aggiungere altra fatica, altro sudore, altro dolore, per uomini, donne e bambini che hanno già camminato per giorni interi.

E poi, andare dove?

Gli ospedali pubblici hanno poche medicine, quelli privati sono troppo costosi.

Ecco perché penso, ostinatamente, che il nostro ospedale sia un segno di speranza per questa gente. Non ci sarà tutto, ma facciamo il possibile. Anzi, l’impossibile.

Quello che mi muove, che ci muove, è la carità verso l’altro, verso tutti. Nessuno escluso.

Gesù ci ha detto di essere presenti nel più piccolo e nel più diseredato.

Questo è quello che facciamo, ogni giorno.


Fratel Beppe Gaido


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