sabato 1 giugno 2019

In aeroporto...

Mi lascio Chaaria alle spalle. Ripenso ai 21 anni di lavoro, di sogni, di impegno incondizionato, di successi e di sconfitte. 
Ripenso al primo giorno di lavoro in cui chiesi una barella su cui visitare ed invece mi diedero una sedia dicendo di non avere altro. 
Ripenso alla fila di pazienti visitati in piedi al mio arrivo. Ricordo la clorochina data a tutti e per qualunque cosa perche' non avevamo altro.
Ricordo la moria dei bambini con 4 grammi di emoglobina, a cui davamo sciroppo di ferro solfato perche' non potevamo trasfondere...e quanti ne vedevamo morire ogni giorno!!!
Ripenso a quando dicevo alle gravide che non avevamo la maternita' e che dovevano andare altrove...ma loro non si spostavano e partorivano al cancello obbligandoci poi ad un veloce pronto soccorso post partum.
E poi l'AIDS...che disastro quando sono arrivato! Lo potevi solo postulare dai sintomi. Non avevamo test e non avevamo terapia. 
E poi, grazie al Progetto Esther dell'Amedeo di Savoiadi Torino, abbiam potuto fare il test HIV e scoprire una vera pandemia. Siamo poi stati i primi in tutto il Meru a poter offrire la terapia antiretrovirale, sempre grazie al progetto Esther.
Non avevamo terapia antitubercolare, non potevamo aiutare il paziente chirurgico.


Quanta strada e' stata fatta! Che passi da gigante nel servizio al malato!
Tanti anni fa ascoltai una conferenza in cui si parlava di SPIRITUALITA' MIGRATORIA. Sostanzialmente si diceva che bisogna essere pronti a migrare altrove quando i nostri servizi non sono piu' necessari in un posto. 
Migrando si offrono i servizi ad altri poveri che potrebbero averne ancor piu' bisogno. Il mio cuore sanguina ma accetto di migrare e di lasciare che Chaaria cammini con le proprie gambe e senza il mio sostegno.

Fr Beppe


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Chaaria è un sogno da realizzare giorno per giorno.

Un luogo in cui vorrei che tutti i poveri e gli ammalati venissero accolti e curati.

Vorrei poter fare di più per questa gente, che non ha nulla e soffre per malattie facilmente curabili, se solo ci fossero i mezzi.

Vorrei smetterla di dire “vai altrove, perché non possiamo curarti”.

Anche perché andare altrove, qui, vuol dire aggiungere altra fatica, altro sudore, altro dolore, per uomini, donne e bambini che hanno già camminato per giorni interi.

E poi, andare dove?

Gli ospedali pubblici hanno poche medicine, quelli privati sono troppo costosi.

Ecco perché penso, ostinatamente, che il nostro ospedale sia un segno di speranza per questa gente. Non ci sarà tutto, ma facciamo il possibile. Anzi, l’impossibile.

Quello che mi muove, che ci muove, è la carità verso l’altro, verso tutti. Nessuno escluso.

Gesù ci ha detto di essere presenti nel più piccolo e nel più diseredato.

Questo è quello che facciamo, ogni giorno.


Fratel Beppe Gaido


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