venerdì 16 ottobre 2009

Non ditemi grazie, per favore...

Sono tornato oggi da Chaaria, dopo la mia terza presenza come visiting doctor e ieri, prima di salire in macchina per andare a Nairobi, ci sono stati i saluti con tanti amici vecchi e nuovi dell'Ospedale e con Fr. Beppe e Fr Lorenzo.
Io mi sono sentito imbarazzato per i numerosi “grazie” che mi sono stati rivolti e vorrei spiegare il perché.
Nelle mie precedenti esperienze, a Chaaria ed altrove, ho conosciuto molti volontari, ognuno con la sua specifica motivazione: chi vuol mettersi in gioco, chi vuole dare una mano, chi è curioso, chi è spinto da un senso religioso o etico, chi vuol vedere un mondo così diverso da una prospettiva particolare: credo siano tutte motivazioni valide; quello che mi disturba e non condivido è chi vuol sentirsi “buono” ed essere ringraziato.
Perché, dopo aver lavorato  un solo mese in un anno, chi dovrebbe dirmi grazie? Suor Oliva che vive e lavora in Africa da oltre trenta anni e superata la soglia degli ottanta continua ad esserci e lavorare? Fr. Ludovico, il fondatore della Comunità, che ultranovantebbe ti sorride e lava i piatti dei ritardatari?
Fr. Beppe che lavora ogni giorno ma spesso anche la notte, a ritmi forsennati? Fr. Lorenzo che sulle strade Keniote, nel traffico impossibile di Nairobi trasporta i volontari, sbriga infiniti compiti massacrandosi di chilometri? 
Non  sono certo loro a dovermi ringraziare.
Allora chi dovrebbe? I malati impolverati che arrivano dopo ore di matatu o di cammino ai quali do  briciole di attenzione alla salute che, come persone umane, è un loro totale diritto?
I neonati orfani che talvolta ho tenuto in braccio durante la poppata della sera, arrivati in un mondo così difficile nelle peggiori condizioni di partenza?
Forse chi dall'Italia, non per un mese ma con continuità di lavoro, sostiene  l'Ospedale raccogliendo fondi, amministrando, coordinando i volontari?
Forse Nadia che ogni giorno ci aiuta con il blog a restare incatenati ad un racconto continuo?
No, nessuno mi deve un grazie per ciò che faccio.
Chaaria è il progetto in cui credo e che voglio condividere non da visitatore ma da partecipante, non da sopra o accanto ma da dentro.
Certo, qualche volta si sperimenta la frustrazione di situazioni che si muovono “pole pole” si vorrebbe cambiare tutto con uno schiocco di dita. Ma, quando ci si immerge in un fiume sconosciuto, non si può andare controcorrente, tagliare l'acqua; bisogna assecondarla, sfruttare la sua forza per muoversi nel senso desiderato, avere pazienza ed umiltà.In fondo, pensandoci un momento, nessuno pensa di fare del volontariato in Svizzera od in Norvegia: se i paesi del cosiddetto Terzo Mondo, avessero le nostre risorse, non avrebbero bisogno di noi.

Max


1 commento:

Unknown ha detto...

bravo Max, permettimi di darti del tu, condivido tutto quello che blillantemente e semplicemente hai scritto, Rinaldo


Chaaria è un sogno da realizzare giorno per giorno.

Un luogo in cui vorrei che tutti i poveri e gli ammalati venissero accolti e curati.

Vorrei poter fare di più per questa gente, che non ha nulla e soffre per malattie facilmente curabili, se solo ci fossero i mezzi.

Vorrei smetterla di dire “vai altrove, perché non possiamo curarti”.

Anche perché andare altrove, qui, vuol dire aggiungere altra fatica, altro sudore, altro dolore, per uomini, donne e bambini che hanno già camminato per giorni interi.

E poi, andare dove?

Gli ospedali pubblici hanno poche medicine, quelli privati sono troppo costosi.

Ecco perché penso, ostinatamente, che il nostro ospedale sia un segno di speranza per questa gente. Non ci sarà tutto, ma facciamo il possibile. Anzi, l’impossibile.

Quello che mi muove, che ci muove, è la carità verso l’altro, verso tutti. Nessuno escluso.

Gesù ci ha detto di essere presenti nel più piccolo e nel più diseredato.

Questo è quello che facciamo, ogni giorno.


Fratel Beppe Gaido


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