mercoledì 11 novembre 2009

Appendicite acuta... e tanta ansia

Domenica sera, come al solito ci siamo ritrovati tutti in cappella per l’adorazione. E’ molto bello per me quando preghiamo insieme con le Suore. Anche Pinuccia non manca mai.

Sr Cecilia stava bene, ed ha anche fatto la lettura dei vespri. Poi alle 21.30, mentre facevo il solito controgiro del dopocena, me la sono trovata seduta sulla panchina di fronte al mio studio: “Che cosa ci fai qui di notte?”


“Ho tanto male e non riesco neppure a camminare”.


La ascolto con attenzione; la visito e faccio un emocromo. Non ho molti dubbi sulla diagnosi: ha un dolore addominale irradiato alla gamba destra... ma lei dice che le era successo anche anni prima e che poi le era passato. Le ho quindi impostato una terapia medica, tesa a “raffreddare” l’episodio acuto: “se le medicine ti aiuteranno e stanotte dormirai bene, allora vuol dire che siamo stati fortunati. Se invece domattina hai ancora dolore, bisognera’ avere il coraggio di prendere una decisione chirurgica”.


La notte pero’ e’ stata difficilissima, con sofferenza ingravescente, e l’alba ha portato con se’ anche la grande responsabilita’ della decisione: “Sr Cecilia, se vuoi ti portiamo a Nkubu, per l’operazione”.


“No! Io mi fido di te e, se la Madre Generale non ha nulla in contrario, perche’ devo andare in un altro ospedale dove non conosco nessuno?”


Io sono turbato. Operare la propria sorella o un membro della famiglia porta sempre con se’ ansie ed insicurezza. Aspetto il responso di Suora Madre, quasi sperando di ricevere un no.

Ed invece, con mia grande sorpresa, la risposta della Superiora Generale e’ lineare: “ Se Sr Celicia si fida, noi non abbiamo nulla in contrario. Vai pure in sala!”

La decisione mi onora, cosi’ come mi aveva fatto molto piacere quella di Sr Cecilia, che aveva rifiutato il trasferimento. Comunque il mio cuore batte impazzito, perche’ sono ben conscio che con amici e conoscenti, le complicazioni sono sempre in agguato.

Ma ancora mi si para davanti un ostacolo: Jesse non e’ a casa, e questa potrebbe essere la scusa per declinare l’intervento: per Sr Cecila non mi sento infatti di essere al contempo anestesista e chirurgo... non vorrei trovarmi nei pasticci a meta’ del lavoro, con rischi gravi per la vita della consorella.

Jesse pero’ e’ stato bravissimo... ha visto sul telefonino il mio messaggio di SOS ed e’ rientrato dalle ferie per l’operazione: siamo andati a prenderlo alla stazione dei matatu a Meru, e si e’ fatto trovare in ospedale a meno di due ore dalla mia chiamata.

La sua anestesia spinale e’ stata molto efficiente, ed abbiamo potuto operare con paziente molto rilassata... Noi, a dir la verita’, non eravamo rilassati per niente, e la tensione si palpava nell’aria. Io in particolare avevo paura di una peritonite in atto, molto piu’ difficile da controllare. Comunque l’operazione e’ andata avanti: il bisturi tagliava, il coagulatore fermava le emorragie minori; i vasi piu’ grossi li legavamo. Poi, dopo aver aperto con attenzione vari strati, la abbiamo vista finalmente: era una brutta appendice, lunga e contorta, difficile da rimuovere perche’ in posizione anomala e saldamente attaccata al colon da aderenze testarde. Ma ce l’abbiamo fatta: e’ stato un lavoro da certosino, in cui guadagnavamo millimetro per millimetro. Se tiravamo un po’ troppo, ecco che la solita arteriola si metteva a “buttare”. Ho sudato il doppio del normale, nonostante l’aria condizionata in funzione; ma la presenza di Ogembo come secondo mi ha dato sicurezza e coraggio.


Ora chiaramente Sr Cecilia ha un po’ male, ma e’ tranquilla e sorridente. Il dolore alla gamba e’ gia’ completamente sparito.


Ringrazio Dio per come sono andate le cose.


Ringrazio la paziente che si e’ consegnata fiduciosamente nelle nostre mani, e naturalmente Suora Madre che ha creduto in me e non ha chiesto il trasferimento della suora in una struttura piu’ attrezzata.



Fr Beppe

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Chaaria è un sogno da realizzare giorno per giorno.

Un luogo in cui vorrei che tutti i poveri e gli ammalati venissero accolti e curati.

Vorrei poter fare di più per questa gente, che non ha nulla e soffre per malattie facilmente curabili, se solo ci fossero i mezzi.

Vorrei smetterla di dire “vai altrove, perché non possiamo curarti”.

Anche perché andare altrove, qui, vuol dire aggiungere altra fatica, altro sudore, altro dolore, per uomini, donne e bambini che hanno già camminato per giorni interi.

E poi, andare dove?

Gli ospedali pubblici hanno poche medicine, quelli privati sono troppo costosi.

Ecco perché penso, ostinatamente, che il nostro ospedale sia un segno di speranza per questa gente. Non ci sarà tutto, ma facciamo il possibile. Anzi, l’impossibile.

Quello che mi muove, che ci muove, è la carità verso l’altro, verso tutti. Nessuno escluso.

Gesù ci ha detto di essere presenti nel più piccolo e nel più diseredato.

Questo è quello che facciamo, ogni giorno.


Fratel Beppe Gaido


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