Un Professore di Medicina Tropicale di Anversa diceva, forse un po’ cinicamente, che per imparare bisogna sempre passare sopra qualche cadavere. Questa affermazione sembra terribile, ma quanto mai veritiera. Una persona si forma soprattutto attraverso brucianti errori, che rimangono così impressi nella mente da non essere più ripetuti.
Purtroppo in Medicina gli sbagli non si riparano facilmente, e a volte conducono addirittura alla morte.
Quando un paziente muore è sempre un’occasione di crisi per me e per i volontari che lavorano a Chaaria. Ci si chiede dove abbiamo sbagliato, che cosa potevamo fare di più o meglio.
Si pensa spesso che un paziente ricoverato in Italia in rianimazione avrebbe potuto ricevere di più, e forse avrebbe potuto essere salvato. D’altra parte ci si consola dicendo a se stessi che facciamo già tanto e che, pensando a certi dispensari dove non si esegue neppure l’esame della malaria, il nostro è già ad un livello diagnostico-terapeutico notevole.
Comunque è vero che mancano così tanti strumenti che spesso si brancola nel buio, si fanno ipotesi un po’ campate in aria, e si corre il rischio di una pericolosa routine che ci porta a pensare sempre e solo a 4 o 5 malattie, e a instaurare protocolli di cura sovente miopi e ripetitivi.
Ma gli insegnamenti di cui voglio parlarvi oggi non sono di ordine tecnico, bensì umano e, se vogliamo, spirituale.
Per esempio ricordo la morte di Bernard, un giovane di circa 30 anni, affetto da una stranissima forma di paralisi progressiva. I problemi erano iniziati alcuni anni prima, con delle sensazioni di stanchezza alle gambe. Poi la situazione era degenerata sempre di più sino a relegarlo a letto in quanto incapace di muovere sia le gambe che le braccia. Era giunto a Chaaria da circa tre. Ci eravamo impegnati tantissimo a cercare una causa per quella situazione. Grazie ad Elizabeth eravamo in contatto con la Facoltà di Medicina Tropicale di Anversa: i Professori ci avevano sempre risposto gentilmente e ci avevano portato a una diagnosi probabile: tubercolosi del midollo spinale con paralisi da compressione. La diagnosi ci aveva dato nuova speranza. Soprattutto Elizabeth - colei che lo ha seguito di più - era raggiante perché almeno per la TBC disponevamo dei farmaci. Avevamo dato al giovane la terapia richiesta e l’avevamo avviato alla fisioterapia. Pian piano i miglioramenti cominciavano a vedersi, e Bernard aveva ripreso a camminare con il girello, anche se con fatica notevole. Lo si vedeva inerpicarsi sulla salita dello scivolo che porta alla palestra, sempre con il sorriso sulla bocca: diceva con soddisfazione che ora poteva stare in piedi nuovamente.
Poi, inaspettatamente, il crollo! Un giorno Bernard era caduto ed aveva cominciato a lamentarsi di forti dolori su tutto il corpo. Lo avevamo visitato ed avevamo escluso la possibilità di fratture. Lo avevamo rassicurato, gli avevamo dato analgesici, ma lui era diventato irrequieto. Ripeteva la storia della caduta infinite volte; diceva di volere altre iniezioni.
La situazione in room 28 (un camerone che ospita più di 30 pazienti) era diventata molto tesa. Non si riusciva a visitare gli altri perché Bernard urlava; gli altri malati erano nervosi a causa delle grida. La decisione di Elizabeth, da me completamente avallata, era stata quella di dargli un po’ di Valium per rilassarlo un tantino: eravamo convinti che il problema fosse d’ordine psicologico, e che la caduta non avesse nulla a che fare con il suo comportamento.
Non più di due ore dopo venni chiamato urgentemente al capezzale di Bernard e lo trovai in fin di vita, completamente in coma. Aveva “gasping”: dava, cioè, gli ultimi respiri; vomitava abbondantemente sangue dalla bocca. A nulla valsero le corse, sia mie che di Elizabeth o di Kithinji. Lui ci lascio’ dopo mezz’ora, facendo precipitare tutti noi in uno stato di profonda frustrazione.
Quello che ci aveva lasciati tutti di stucco era il fatto che Bernard continuasse comunque a chiamare ed a urlare, anche se a nostro avviso la caduta non poteva aver causato tutto quel dolore.
La mia profonda convinzione oggi è che i malati sentano benissimo quando la vita sfugge loro di mano. Chiamando continuamente forse voleva dirci che la vita lo stava lasciando, ma noi, sempre di corsa non avevamo saputo dargli retta. Noi siamo tecnicisti e “molecolari” e quindi scientificamente sapevamo che non poteva essere vero che lui avesse così tanto male… ed ancora una volta ci era sfuggito l’aspetto umano di quella richiesta di aiuto.
A questo riguardo mi torna in mente il caso di Susan, una malata grave che una sera mi prese per il vestito e mi trascino’ contro il proprio petto continuando a ripetere: “Doctor, I am dying”. Istintivamente terrorizzato da quella mossa avevo provato a divincolarmi ma lei era spirata con i pugni chiusi attorno al mio camice. Per me era stato uno shock notevole trovarmi a distanza ravvicinata da quel corpo, non perché avessi paura dei morti, ma perché compresi che Susan sentiva che erano giunti gli ultimi istanti, e si era avvinghiata a me quasi per non lasciare che la vita le scappasse via.
I malati lo sentono quando stanno morendo, e noi molto spesso siamo troppo distratti per comprenderli.
L’altra grande lezione ricevuta dal povero Bernard è stata una nuova presa di coscienza che non siamo onnipotenti.
Avevamo davvero fatto tutto quello che potevamo ma, onestamente, non avevamo capito niente. Eravamo in contatto internet con i professori della scuola di Medicina Tropicale di Anversa; avevamo usufruito del teleconsulto, ma in fin dei conti tutti provavano solo ad indovinare. E poi ci mancano così tanti mezzi qui in Africa. Se domandi aiuto in Europa ti chiedono di fare TAC, Risonanza, e cose del genere che noi a Chaaria neppure possiamo sognarci.
E’ molto dura per un medico ammetterlo, ma casi come quello di Bernard ci aiutano a ridimensionarci, ci indicano chiaramente i limiti della nostra conoscenza e della nostra professionalità; diventano scuola di umiltà.
Fr Beppe Gaido
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