venerdì 18 giugno 2010

Vorrei fare ancora di più

Raccontando qua e la’ per l’Italia e per l’Europa quello che facciamo a Chaaria, vedo sovente i miei uditori sgranare gli occhi, mentre leggo nei loro pensieri una perplessita’ che in qualche modo posso condividere pienamente.
E’ come se mi volessero dire che sono pazzo, o per lo meno temerario nell’intraprendere sempre nuove procedure, che mi espongono a gravi rischi professionali e forse mettono anche il malato in pericolo di vita.
Queste perplessita’ le avevo anche io, e da esse mi permane una crisi quotidiana.
E’ meglio cercare di fare il massimo, di dare il meglio anche delle nostre conoscenze e delle nostre capacità tecniche, pur con il rischio di fare errori; oppure forse conviene proteggersi le spalle, decidere di “non fare” per evitare il pericolo dello sbaglio?
La mia indole mi ha sempre spinto a scegliere la prima opzione, confidando molto nell’aiuto della Divina Provvidenza che deve essere stata continuamente impegnata a “tenermi una mano sulla testa”, visto che di grossi disastri alla fine dei conti non ne sono mai capitati. Penso infatti che in un contesto povero come il nostro, il peccato di omissione, giustificato spesso da un comune senso di prudenza, sia in effetti molto grave.
Ricordo come se fosse ieri quello che mi è capitato pochi mesi dopo il mio arrivo a Chaaria. Era sera tardi. Fr Maurizio mi aveva chiamato in dispensario per visitare una ragazza che aveva avuto un aborto. A quei tempi la mia mente era ancora molto europea; io sapevo di essere un internista specializzato in malattie tropicali. Non ero un ginecologo! Per cui avevo detto a Fr Maurizio che non avrei potuto fare nulla perché non si trattava del mio campo. La paziente avrebbe dovuto essere trasportata in un ospedale più attrezzato e dotato degli specialisti del caso. Il mio confratello aveva spiegato il tutto ai parenti della malata che, senza fiatare, l’avevano portata via nel buio della notte. Alcuni giorni dopo avevo voluto sapere notizie: avevamo chiesto qua e là ed eravamo venuti a conoscenza del fatto che la giovane era morta a casa, probabilmente di anemia, perché la famiglia non era riuscita a racimolare una cifra sufficiente al trasporto in ospedale. Quello era stato uno dei primi campanelli d’allarme. In Africa non ci si può nascondere dietro alle specializzazioni.
Spesso quello che non facciamo noi non lo fa nessuno, e le conseguenze possono essere disastrose. Bisogna dunque farsi in quattro; diventare medici a tutto campo, cercando di sviluppare al massimo i propri talenti. E pian piano ci si accorge di saper fare molte più cose di quanto in precedenza si pensava; si cresce nel coraggio e nelle capacità tecniche, e con l’aiuto di Dio si riesce ad aiutare in molte situazioni spesso disperate.
Io so che il Signore c’è sempre, e che ci protegge. Chaaria appartiene a Lui e noi non siamo che suoi strumenti.

Fr Beppe Gaido

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Chaaria è un sogno da realizzare giorno per giorno.

Un luogo in cui vorrei che tutti i poveri e gli ammalati venissero accolti e curati.

Vorrei poter fare di più per questa gente, che non ha nulla e soffre per malattie facilmente curabili, se solo ci fossero i mezzi.

Vorrei smetterla di dire “vai altrove, perché non possiamo curarti”.

Anche perché andare altrove, qui, vuol dire aggiungere altra fatica, altro sudore, altro dolore, per uomini, donne e bambini che hanno già camminato per giorni interi.

E poi, andare dove?

Gli ospedali pubblici hanno poche medicine, quelli privati sono troppo costosi.

Ecco perché penso, ostinatamente, che il nostro ospedale sia un segno di speranza per questa gente. Non ci sarà tutto, ma facciamo il possibile. Anzi, l’impossibile.

Quello che mi muove, che ci muove, è la carità verso l’altro, verso tutti. Nessuno escluso.

Gesù ci ha detto di essere presenti nel più piccolo e nel più diseredato.

Questo è quello che facciamo, ogni giorno.


Fratel Beppe Gaido


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