giovedì 27 gennaio 2011

Ritornare a Chaaria... da recidivi...

Certo e’ un’esperienza diversa “dalla prima volta”.
E’ come ritornare a casa di amici, in un mondo che ti sembra di conoscere gia’, notare i piccoli e i grandi passi fatti, la comunita’ che cresce, il migliorare, anno dopo anno, dell’ospedale, del personale, di tutta l’organizzazione sanitaria.
E’ la sensazione di far parte di questa comunita’ in crescita, anche solo per poco tempo.
Quindici giorni. Troppo pochi per avere l’impressione di poter dare qualcosa.
Quando inizi ad ambientarti, a confonderti con la comunita’ che ti circonda, e’ ora di andar via.
E’ sempre difficile, all’inizio dell’esperienza, immergersi nell’ambiente della corsia dell’ospedale.
Patologie diverse da quelle che conosciamo comunemente, cartelle scritte in maniera quasi incomprensibile, innumerevoli sigle, terapie spesso sconosciute...
Hai la sensazione di  non potercela fare, di non essere all’altezza della situazione, di non poter essere d’aiuto.
E, dopo anni di esperienza lavorativa, ti trovi improvvisamente nella condizione del medico fresco di laurea che deve imparare ancora tanto del proprio mestiere.
Un bello schiaffo per chi come noi proviene da una societa’ dove devi essere sempre il primo, il migliore, per contare qualcosa.
Questo e’ un posto dove non devi contare qualcosa, dove non devi essere il primo o il migliore. Non e’ necessario. Non e’ il posto adatto dove decidere di cambiare il mondo.
E’ l’occasione invece per mettere da parte ogni velleita’, per spogliarsi totalmente del proprio ego e mettersi in ultima fila, in silenzio, per cercare di comprendere umilmente questa nuova realta’, adattarsi,  confondersi con essa e dare pian piano il proprio contributo...pole  pole.
Che potra’ essere anche misero, ma sara’ comunque carico di amore e di entusiasmo.
E’ una lezione di vita che non potremo mai ricevere nella nostra societa’ “civilizzata”. Una lezione  che umilia il nostro istinto di protagonismo e di “ Salvatore del mondo” e che ci costringe a ridimensionare la nostra esistenza.
E’ bisogno di sentirsi ultimo tra gli ultimi, povero fra i poveri per poter crescere insieme.
Solo allora si riesce a capire la luce in quegli occhi colmi di gratitudine.
Asante Sana Chaaria.
Nietta

2 commenti:

Anonimo ha detto...

Cara Nietta, grazie di cuore della tua lettera davvero toccante e profonda. Mi ha commosso leggerla, e mi ha anche incoraggiato.
Se tu hai scritto così è perchè Chaaria è ancora una esperienza profonda e significativa per tanti.
Hai vissuto Chaaria dal di dentro; l'hai palpata con il cuore. Mi trovo in totale sintonia con i tuoi sentimenti.
Grazie che li hai scritti.
Io non posso che dirti grazie per tutto quello che hai fatto in questi 15 giorni di donazione e dedizione totale da mane a sera.
Con me ti ringraziano i pazienti della medicina generale che hai seguito con amore e con grandissima professionalità.
Grazie per la tua sensibilità e la tua delicatezza. Grazie per la tua fede. Grazie per quello che ci hai donato. Soprattutto grazie per quello che hai donato ai pazienti.
Un abbraccio. Io spero che tu sia plurirecidiva, perchè avremo ancora bisogno del tuo servizio... visto poi che gli internisti stan diventando delle mosche bianche.
Ciao Un abbraccio da Chaaria. Beppe

Anonimo ha detto...

....grazie, ottima espressione di un'emotività comune...difficile esprimerla bene come sei riuscita a fare tu...


Chaaria è un sogno da realizzare giorno per giorno.

Un luogo in cui vorrei che tutti i poveri e gli ammalati venissero accolti e curati.

Vorrei poter fare di più per questa gente, che non ha nulla e soffre per malattie facilmente curabili, se solo ci fossero i mezzi.

Vorrei smetterla di dire “vai altrove, perché non possiamo curarti”.

Anche perché andare altrove, qui, vuol dire aggiungere altra fatica, altro sudore, altro dolore, per uomini, donne e bambini che hanno già camminato per giorni interi.

E poi, andare dove?

Gli ospedali pubblici hanno poche medicine, quelli privati sono troppo costosi.

Ecco perché penso, ostinatamente, che il nostro ospedale sia un segno di speranza per questa gente. Non ci sarà tutto, ma facciamo il possibile. Anzi, l’impossibile.

Quello che mi muove, che ci muove, è la carità verso l’altro, verso tutti. Nessuno escluso.

Gesù ci ha detto di essere presenti nel più piccolo e nel più diseredato.

Questo è quello che facciamo, ogni giorno.


Fratel Beppe Gaido


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