sabato 16 marzo 2013

Chaaria: un'isola di pace

Carissimo Beppe,

Stanno ancora proseguendo le mie riflessioni sull'esperienza e la mia percezione di Chaaria (parlo dell'ospedale) è che sia un'isola di pace.... sì hai letto bene, ho scritto isola di pace anche se può sembrare strano in una realtà in cui la sofferenza e il dolore impazzano. 

Mi è piaciuto moltissimo lavorare in reparto e confrontarmi con i malati e con il personale; ho percepito come piano piano, per lo staff,  da invisibile presenza , sono passata dapprima a presenza che si guardava con curiosità e un pò di diffidenza poi accolta e considerata come parte del loro mondo. Mi è piaciuto come si rivolgessero a me come se fossi una di loro. Poi mi hanno aiutato in diverse circostanze: per esempio i clinical officer ai quali più volte ho chiesto lumi sulle terapie (da come andavano scritte, agli antibiotici più opportuni da usare per le vostre infezioni);   vedevo che mi scrutavano per capire se davvero un dottore chiedeva loro come fare.... questo atteggiamento di umiltà e di riconoscere i propri limiti credo abbia portato il rapporto su un piano paritario, soprattutto come essere umani, che era quello che andavo cercando come si cerca l'acqua quando hai sete. 


 

Anche gli infermieri ai quali chiedevo aiuto per le medicazioni e il giro pazienti, piano piano hanno cominciato a cercarmi e comunicarmi le cose che avevano notato e che secondo loro erano meritevoli di attenzione medica, trattandomi davvero come una dello staff. Tutto questo mi ha davvero gratificato perchè mi ha fatto capire che sono capace di confrontarmi anche con persone molto diverse da me per esperienza, cultura ed abitudini, e anche di prendere e dare  loro: tante volte è capitato anche di scambiarci modi di fare, e ho visto un guizzo di interesse nei loro occhi e anche ciò mi ha reso felice ..... se solo penso alla fatica fatta l'anno scorso per i drenaggi di penrose che venivano guardati con un tale diffidenza.....

Mi ha molto colpito anche il fatto che quando è capitato di verificare che qualcuno non stava facendo la terapia secondo il plan e garbatamente glielo ho fatto notare, mai ho percepito un fastidio o un disagio per aver in qualche modo evidenziato una mancanza, credo che questo sia stato davvero legato al fatto che "magicamente" in quell'isola di pace, il giudizio è venuto meno e passava, da vita a vita,  la semplice volontà e condivisione di uno scopo unico che era il bene dei malati..... magari si potesse trasportare anche da noi questo spirito. Comunque non demordo, devo riuscire ad essere la stessa a Chaaria e qui.....

L'altro aspetto che mi ha colpito moltissimo è la solidarietà tra i malati, pochi di loro parlavano inglese e comunque in ogni modo cercavano di attirare l'attenzione del medico se qualcuno stava male o aveva qualche difficoltà.... anche laggiù, come da noi, la fine di una flebo sembra una cosa gravissima se non viene subito staccata..... e loro si sbracciavano per attirare l'attenzione su una flebo finita o su qualcuno che stava male, per non parlare dei pochi che erano in grado di comunicare in inglese e che ben volentieri si prestavano a tradurre per gli altri. Si aiutavano per mangiare gli uni con gli altri e con grande semplicità accettavano di essere aiutati anche da te; ho notato che le tante volte che mi sono portata i malati per le eco, che spesso erano pazienti che  non camminavano bene sulle loro gambe, dopo un iniziale momento di stupore, accettavano l'aiuto con grande semplicità e naturalezza. 

Per non parlare delle visite agli outpatient dove almeno un paio di volte ho usufruito dei suggerimenti delle ragazze di sala perchè io poche volte mi ricordavo di essere in Africa e che molti sintomi potevano essere correlati alla malaria: arrivavo a capire che non erano faccende chirurgiche, però di fatto avevo davanti a me qualcuno che certamente bene non stava e sono stata molto contenta che loro si siano sentite libere di suggerirmi di testare la malaria. Questo evidentemente significa che sono riuscita ad abbattere le barriere del medico al di sopra degli altri.... naturalmente avevano ragione.... spero di aver imparato.

Mi sono davvero dimenticata di essere un medico nel senso di avere dei ruoli precisi e stabiliti dalle convenzioni, e ho fatto sempre tutto quello che c'era da fare anche se non rientrava strettamente tra le mie competenze istituzionali perchè l'unico scopo era fare quello che serviva per aiutare i malati, qualunque cosa fosse: dallo sbarellare, al portare il malato in eco, all'andare a cercarti i teli per le eco e anche piegare garze se serviva... il tutto con una leggerezza e naturalezza che mi sarebbe piaciuto racchiudere in un' ampolla e liberare nei momenti opportuni anche qui.




Giacomina Adorni




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Chaaria è un sogno da realizzare giorno per giorno.

Un luogo in cui vorrei che tutti i poveri e gli ammalati venissero accolti e curati.

Vorrei poter fare di più per questa gente, che non ha nulla e soffre per malattie facilmente curabili, se solo ci fossero i mezzi.

Vorrei smetterla di dire “vai altrove, perché non possiamo curarti”.

Anche perché andare altrove, qui, vuol dire aggiungere altra fatica, altro sudore, altro dolore, per uomini, donne e bambini che hanno già camminato per giorni interi.

E poi, andare dove?

Gli ospedali pubblici hanno poche medicine, quelli privati sono troppo costosi.

Ecco perché penso, ostinatamente, che il nostro ospedale sia un segno di speranza per questa gente. Non ci sarà tutto, ma facciamo il possibile. Anzi, l’impossibile.

Quello che mi muove, che ci muove, è la carità verso l’altro, verso tutti. Nessuno escluso.

Gesù ci ha detto di essere presenti nel più piccolo e nel più diseredato.

Questo è quello che facciamo, ogni giorno.


Fratel Beppe Gaido


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